Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

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Andreapisa

Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

Messaggio da Andreapisa »

Volevo segnalarvi questa incredibile storia che trovai anni fa sul forum di kighine,non so se sia vera o inventata ma a me fa venire la pelle d'oca ogni volta che la leggo.Questa storia è fatta a paragrafi alternati,in un paragrafo il narratore parla della vita odierna,nell altro parla del passato.
Se avete 15 minuti liberi,leggetela,penso che ne rimarrete entusiasti.


....la passione,la musica, le serate,
IL MEZZANOTTE MEZZAGIORNO


E' DIVISA IN TITOLETTI SCRITTI IN STAMPATELLO....STORIE INTRECCIATE

Questo è l’Imperiale:
siamo tutti uguali,
ci salutiamo e ci vogliamo bene
e poi facciamo anche l’amore.
Cosa vuoi di più?
Ascolti la musica,
viaggi, perché questa musica ti fa viaggiare,
e poi facciamo anche l’amore.



QUESTO TI RESTERA IN TESTA PER TUTTA LA VITA
Questa storia parla di una cosa che è successa sulle sponde del Tirreno nella
prima metà degli anni novanta, una cosa con cui molti ragazzi della mia
generazione sono per lo meno venuti a contatto ma di cui non ho mai sentito
parlare sui media se non di sfuggita, nella solita trita retorica delle stragi del
sabato sera o della gioventù bruciata. Questa storia parla di una cosa che in
pochi sono riusciti a inquadrare, una cosa il cui nucleo è stato secondo me
compreso solo da pochissime persone.
Questa storia è un atto d’amore verso un periodo che ha segnato, nel bene e
nel male, la mia vita, e che mi ha lasciato sulla pelle segni che difficilmente
andranno via. Questa storia è un tributo a tutte le persone che mi hanno
guidato e poi accompagnato in questo vortice, ed è anche un modo per
riportare alla mente e sistemare situazioni, personaggi e sensazioni che si
fanno col passare degli anni sempre più sbiadite e confuse.
Questa storia è una storia di fantasia e i personaggi che vi compaiono, anche
quando hanno nomi reali, non si comportano come facevano nella realtà.
Non ho voluto modificare certi nomi, quelli dei personaggi della scena,
perché il risultato sarebbe stato grottesco, però le loro azioni e i tratti
negativi che essi possiedono nella storia sono frutto della mia fantasia. In
ogni caso, non volevo offendere né diffamare nessuno.
Le frasi che aprono i capitoli sono frasi di Franchino, e servono come
chiave di lettura di quanto segue. Sono sempre stato convinto che le favole e
i discorsi di Franchino contenessero tutto il senso di quell’esperienza, e mi è
sembrato naturale utilizzarli.
Un abbraccio a tutta la famiglia Imperiale, la famiglia più grande che io
conosca.


GUARDATE LA BOCCA: È ACCESA, BRILLA
La notte mi capita molto spesso di svegliarmi di soprassalto in un lago di
sudore, con le gengive doloranti. A tenere le mascelle serrate, i molari
vengono compressi l’uno sull’altro e iniziano a far male. Allora sogno che
mi stanno cadendo i denti, che li sento ballare tra le gengive e quasi sento il
bisogno di smuoverli per farmeli venire via. Sogno che apro la bocca
davanti allo specchio e vedo una macchia insanguinata. In bocca sento il
sapore del sangue. Mi copro il volto con le mani e poi le ritraggo e le
guardo, quasi compiaciuto.
Uno psicoterapeuta potrebbe trovare mille chiavi di lettura a questo sogno,
potrebbe chiedermi del rapporto coi miei genitori o della mia sessualità. Io
però ho una formazione scientifica, e so per certo che dietro a questo sogno
che mi perseguita c’è semplicemente quello che ho fatto ai miei neuroni nel
corso di tre anni della mia vita.


È DOVE OGNUNO DI NOI FA QUELLO CHE DESIDERA O PER
LO MENO LO SOGNA
Il generatore di corrente parte alle sei di mattina, e sta proprio sotto la mia
finestra. Inizia con un brusio, nemmeno troppo fastidioso. Poi, via via che ci
si fa l’orecchio, si fa sempre più forte, e il gas di scarico comincia ad entrare
dalla finestra. Così ogni mattina devo alzarmi, verso le sei e mezza, per
chiuderla. Luca, che ha la stanza accanto alla mia, ha risolto la questione
tenendo la finestra chiusa per tutta la notte. Io però col caldo non riesco ad
dormire.
Non sempre riesco a riprender sonno. Di solito la prima cosa che faccio è
affacciarmi alla finestra guardare il cielo, riempiendomi i polmoni del gas di
scarico. In genere è ancora buio, ma ci si può fare già un’idea della giornata
che può uscirne fuori. Non che questo serva a un granché. Qui le giornate
sono praticamente tutte uguali. L’alba in genere è di un colore sporco.
Raramente si riesce a distinguere l’orizzonte. Qualche nuvola bianca sparuta
macchia il cielo, e va avanti così tutto il giorno. Altre volte invece l’aria è
limpidissima e le nubi sono basse grigie spesse e coprono tutto il cielo. In
queste giornate si alza forte il vento dell’ovest e tira su tutta la sabbia, la
porta via dalla spiaggia e la rigetta verso l’interno, nel deserto. Per terra non
si sta granché, la sabbia dà piuttosto fastidio, ma per mare si fila alla grande.
14 luglio 2001. Ormai facevano quattro anni che ero via dall’Italia. Mi alzai
dal letto e mi avvicinai alla finestra. Cielo un po’ fosco, qualche nuvola
bianca qua e là. Una giornata come tante altre, appunto. E come tante altre
volte, anche quella mattina non riuscii a riprendere sonno. Alle sette scesi in
cucina. Bemvindo era appena arrivato, e facemmo colazione insieme.
Bemvindo è un nativo, ha la pelle nera come la pece che contrasta
vivamente col sorriso bianchissimo, sempre stampato sulla faccia rotonda.
Bemvindo ha una famiglia numerosa, i suoi fratelli sono pescatori, e quando
la stagione va male è lui che pensa a tutti gli altri. Bemvindo è uno dei più
ricchi del paese, e tutti lo rispettano. Bemvindo lavora per noi: è una sorta di
direttore generale. Seleziona e dirige il personale, prende le prenotazioni, va
a prendere e porta in giro i clienti con il pick-up.
Alle otto ero già pronto per andare in spiaggia. Dovevo preparare
l’attrezzatura. La prima lezione iniziava alle dieci: un italiano.
Io e Luca viviamo sull’isola di Boavista, nell’arcipelago di Capo Verde,
trecento miglia ad ovest del Senegal. Possediamo un albergo e un centro
sportivo sulla spiaggia di Estoril. Lui si occupa delle immersioni subacquee,
io del windsurf.
Luca era partito il giorno prima per Praia, la capitale, dove doveva sbrigare
alcune faccende burocratiche, così avrei dovuto sostituirlo per la sua
lezione. In genere ci sono sempre meno persone per il windsurf; le
immersioni vanno più di moda, specie tra gli italiani. Almeno in questa
stagione: d’autunno arrivano un sacco di tedeschi con le tavole. Ma
raramente prendono lezioni; spesso sono molto più bravi di me.
Alle nove era già pronto tutto, così mi sedetti sul bagnasciuga ad aspettare.
Una giornata come molte altre. Vento leggero da est. Mare piuttosto calmo.
Qualche nuvola bianca e riccioluta. Cielo azzurrognolo.
Mirko arrivò con mezz’ora di anticipo. Sui trent’anni, statura media, fisico
piuttosto atletico, molto abbronzato. Una persona apparentemente normale.
Mi si fece incontro con aria incerta e interrogativa.
– Scusi è lei… insomma è qui per le immersioni?
– Si. Io mi chiamo Jacopo, e tu?
– Mirko.
Ci stringemmo la mano con poca convinzione.
– Allora, Mirko, sai già come funziona? Non hai il brevetto, vero?
– No.
– Allora devi firmarmi la liberatoria.
Tirai fuori il pezzo di carta su cui Mirko dichiarava che si assumeva tutta la
responsabilità per quello che sarebbe potuto succedere e procedetti con le
rituali spiegazioni su come si fa a evitare l’embolia.
Mirko mi ascoltava con attenzione, sforzandosi di pormi domande
intelligenti per dimostrare a se stesso di avere capito.
– Allora, tutto chiaro, possiamo andare?
– Sono pronto.
Salimmo sul molo, saltammo sul gommone e accesi il motore. Mirko era
visibilmente emozionato.
Boavista non è che sia un paradiso per le immersioni. Non c’è barriera
corallina. Sul fondale non c’è granché da vedere: la sabbia bianca e
finissima si alza già con il mare appena mosso e intorbidisce l’acqua. E poi,
non essendo presenti formazioni coralline, le sole cose da vedere sono
alcuni relitti. Gli animali invece risultano spesso interessanti. Il mare è
pieno di tartarughe e di squali. Questi ultimi difficilmente attaccano l’uomo
e vederli nuotare, con la loro linea elegante, è sempre un bello spettacolo.
Sicuramente poi fa colpo su dei novizi.
Effettivamente Mirko ne uscì colpito. Mi pose svariate domande sulla fauna
marina alle quali cercai di rispondere come meglio potevo. Non mi sono
mai interessato di biologia marina e non credo di aver fatto bella figura né
di avere trasmesso un particolare entusiasmo, mi sentivo un po’ come un
conduttore di programmi scientifici di serie B. Mirko in ogni caso pareva
soddisfatto e non accennava a voler interrompere la conversazione e
rientrarsene a casa. Non che la cosa mi dispiacesse, sembrava pure
abbastanza simpatico e mi pareva fosse sinceramente interessato a
conversare con me. Io poi quella mattina non ero neanche di cattivo umore.
Alla fine, esaurito l’argomento fauna marina, fui io a spostare la
conversazione.
– Senti, la prossima lezione ce l’ho fra due ore, perché non vieni in albergo
che ti offro un caffè?
Pare che il caffè del nostro albergo sia squisito. Dico pare perché io il caffè
non lo posso bere, già ho difficoltà di mio a dormire e col caffè finirei per
passare tutte le notti in bianco. Luca ha fatto portare una macchina apposta
dall’Italia, e periodicamente si fa inviare dei sacchi di caffè torrefatto da una
certa rinomata piantagione in Senegal. Lo fa preparare inoltre solo con un
tipo particolare di acqua in bottiglia che si fa spedire dalla Campania. Mi
posizionai dietro al bancone del bar, nella veranda, e preparai il caffè a
Mirko. Io invece mi servii un bel bicchiere di grogue, una liquore locale a
base di canna da zucchero. Una sorta di rum molto dolce. Inizialmente la
conversazione verté sull’albergo e sulla nostra attività, poi, quando l’alcool
iniziava a sciogliermi, decisi che era il momento di passare a domande un
po’ più personali.
– Sei qui da solo?
Mirko effettivamente non aspettava che di passare a parlare di questioni
personali. Mi raccontò che era lì con la moglie, e mi parlò della situazione
in cui si trovava. Sposato da due anni, aveva conosciuto la moglie solo una
decina di mesi prima del matrimonio. Il classico colpo di fulmine. Era
arrivato al punto in cui si chiedeva se aveva fatto bene. Certo, l’amava, di
questo era sicuro, ma era come se non riuscissero più a condividere le cose.
Menavano esistenze separate. E proprio questa vacanza, che era stata
pensata per colmare la voragine che tra di loro andava aprendosi, aveva
portato a galla ulteriori problemi: lei si piazzava sulla spiaggia a prendere il
sole e non voleva muoversi per niente al mondo. Neppure per fare il bagno.
Lui si annoiava, e così aveva deciso di fare da solo quello che avrebbe
preferito fare assieme a lei.
Lo ascoltai pazientemente. Mirko aveva trent’anni, solo uno più di me.
Sembrava una persona perbene, una moglie, una vita normale. Era questa la
normalità, pensavo? Era questo di cui avevo avuto bisogno tutte le volte che
mi ero svegliato nel cuore della notte, in un lago di sudore e con le mascelle
indolenzite a forza di tenere le gengive serrate?
Povero ragazzo, mi faceva pena: chissà cosa si aspettava dalla vita, quanto
aveva investito sul suo matrimonio e sulla sua carriera. Ma che avrei potuto
fare per aiutarlo? Fargli cavalcare le onde, portarlo a fare altre immersioni,
magari a vedere il relitto di qualche nave, mi pareva un’inutile crudeltà,
come l’ultimo pasto dei condannati a morte. Tanto di lì a pochi giorni se ne
sarebbe tornato in Italia.
Cercai di confortarlo con frasi di circostanza, ma evitai accuratamente di
metterci del personale e di fare paragoni con la mia situazione. Chissà cosa
poteva pensare di me? Avrebbe voluto scambiare la sua vita con la mia? La
mia vita, che doveva sembrargli così avventurosa, così libera. Albergatori in
un’isola tropicale. Suona come gli articoli “Come cambiare vita” delle
riviste maschili. Elettrizzante. Se solo avesse saputo.
La sera stessa, verso le dieci, Mirko e la moglie si presentarono al bar.


QUESTO È IL SOGNO DI UN BAMBINO
I miei genitori erano morti da circa un anno in un incidente d’auto. Io e
mia sorella eravamo rimasti a vivere nella casa di famiglia in città, solo
che lei si era trascinata in casa il suo ragazzo. Lei aveva un anno meno di
me, ma non mi aveva mai stimato come di solito ci si aspetta che una
sorella stimi il fratello maggiore: invece mi aveva sempre trattato con aria
di superiorità. Dopo la morte dei miei genitori la situazione era peggiorata.
Giovanni faceva l’avvocato e aveva ventotto anni, otto più di lei. Stavano
insieme da almeno un anno. Ai miei genitori piaceva. Era un buon partito.
Quindi non avevo scuse per oppormi alla sua presenza, che però mi pesava
decisamente. Non che tentasse di farmi da padre, o da fratello maggiore.
Semplicemente, lasciava trasparire che mi considerava un ragazzino che
doveva ancora crescere e capire come va il mondo. E mia sorella pendeva
dalle sue labbra.
Io per parte mia mi ero buttato nello studio, e avevo limitato al minimo i
contatti sociali. Lei e Giovanni insomma mi guardavano dall’alto in basso,
con la sincera convinzione che prima o poi avrei smesso di passare le
nottate sui libri e iniziato a fare una vita più normale, come tutti i miei
coetanei. Compassione, ecco quello che provavano per me. Compassione
per un povero sfigato che non avrebbe potuto farcela da solo dopo la morte
dei nostri genitori e che avrebbe avuto bisogno del loro consiglio fraterno.
Poi una mattina di febbraio avevo sbagliato strada. Ero passato alla
copisteria in via San Gallo a ritirare delle dispense, e mi stavo recando
verso le aule di via Capponi. Incrociai Alessia in piazza Santissima
Annunziata e la salutai distrattamente, la testa persa in qualche altro posto.
C’eravamo presentati, la conoscevo di vista, ma non avevo mai avuto modo
di conversare con lei.
– Jacopo, non vieni oggi a chimica organica?
– Si, appunto sto andando lì.
– Ma guarda che oggi facciamo lezione al dipartimento, in via Maragliano.
Viso un po’ squadrato, occhi e bocca di piccole dimensioni, Alessia non era
particolarmente bella. Tuttavia aveva un modo di guardare le persone, una
certa luce negli occhi che la rendevano decisamente seducente.
Dopo le prime frasi di circostanza – esami, piani di studio, progetti – il
silenzio scese imbarazzante tra noi. Ma fu lei a risolvere l’impasse,
ponendomi una domanda diretta e disarmante come un pugno allo
stomaco:
– Jacopo, ma perché hai sempre quello sguardo opaco perso nel vuoto?
Non mi era mai capitato che una persona desse l’impressione di voler
gettare il suo sguardo così profondamente dentro di me. Forse per paura di
vedere il marcio che ho dentro, mi dicevo. Forse, più prosaicamente, perché
non interessava. E poi io ho sempre detestato le persone che si approfittano
e vomitano addosso tutti i loro guai a persone che conoscono appena. Però
con lei era diverso, e mi sembrava che fosse lei a interessarsi a quelle che
potevano essere le cause del mio malessere e a quello che c’era dentro di
me. E allora iniziai a parlare, lo sguardo fisso fuori dal finestrino
dell’autobus che frugava attraverso le finestre delle abitazioni borghesi del
centro. Parlavo perdendo il filo dei miei pensieri, senza neppure tentare di
collegare le cose che dicevo. E lei mi ascoltava, meravigliata, come se tutte
le schifezze che le stavo rovesciando addosso fossero invece una cosa
preziosa, un dono importante che le stavo facendo.


ANDREA, SCUSALI, LORO NON SANNO QUELLO CHE FANNO
Alessia mi riconobbe subito.
– Jacopo, che piacere rivederti! Nessuno sapeva dov’eri finito. Mi fa piacere
trovarti bene.
Ma che cazzo di frase aveva usato, dopo anni che non ci vedevamo e dopo
quello che era successo? Il sangue mi saliva alla testa.
– Mi fa piacere che tu mi trovi bene, le dissi abbozzando un mezzo sorriso
sghembo.
– Ma guarda che coincidenza – sopraggiunse Mirko – e come vi siete
conosciuti?
La domanda mi prendeva imbarazzato, perché non sapevo cosa Mirko
sapeva del passato di Alessia, quello che lei avrebbe potuto tenergli
nascosto. Fortunatamente, fu lei a parlare:
– Abbiamo studiato chimica insieme. O meglio, lui studiava. Era
bravissimo. Spesso riusciva, negli esperimenti, meglio degli assistenti.
Abbiamo frequentato la stessa compagnia di amici, per un po’, poi io ho
lasciato perdere gli studi e ci siamo persi di vista.
Ebbi un sussulto. In effetti la cosa poteva anche essere letta in questo modo.
A un certo punto Alessia aveva deciso di lasciar perdere gli studi e non ci
eravamo più rivisti. La “compagnia di amici” si era sfaldata. L’espressione
mi faceva pensare a un gruppo di soggetti abbronzati, sorridenti, tutti
bellissimi, muscolosi e asciutti, intenti a brindare a un tavolino. Un po’
come le immagini che si trovano sui depliant turistici. Riuscii a stento a
trattenere una risata nel confrontare l’immagine che mi si era formata nella
mente con l’effettiva realtà del “gruppo di amici”. Ad ogni buon conto,
sembrava ragionevole come spiegazione.
– Che cosa posso offrirvi?
– Perché non ci fai due bei bicchieri di grogue?
Alessia intervenne:
– No, grazie, io preferirei un caffè.
Li feci accomodare a un tavolino nell’angolo da cui si godeva una bella
vista della spiaggia e portai loro quello che mi avevano chiesto. Nonostante
i miei maldestri tentativi di sembrare indaffarato, la serata era piuttosto
morta e alla fine arrivò il momento in cui Mirko mi invitò a sedere con loro.
Presi un bicchiere da cocktail, lo riempii fino all’orlo di un whisky di marca
scadente e mi sedetti al loro tavolo.
Cercai di mostrarmi quanto più cordiale mi fosse possibile, ma dopo le
inevitabili e inconsistenti frasi di rito, il silenzio si stese minaccioso.
Allora mi tornò in mente il giorno che avevo conosciuto Alessia, e presi in
mano la situazione. Senza guardarli negli occhi, lo sguardo perso da qualche
parte nello scaffale delle bottiglie, iniziai a parlare. Ma stavolta, niente di
privato. Parlai della nostra attività, di come sei anni prima Luca si fosse
stabilito qui a seguito di una storia finita male e avesse aperto una scuola di
diving, di come gli si fosse presentata, due anni dopo, la possibilità di
acquistare l’albergo e di come avessi deciso di impegnare tutti i miei
risparmi in quell’avventura. Poi chiesi del loro, di lavoro, e non fui sorpreso
del fatto che entrambi avessero una posizione normale e rispettabile: grafica
pubblicitaria lei, programmatore lui.
Non ricordo per quanto rimasi con loro, fatto sta che a un certo punto
Alessia diede di gomito a Mirko, si alzarono, mi salutarono cordialmente e
fecero per andarsene. Mi offrii di accompagnarli col pick-up: il villaggio nel
quale alloggiavano era a più di due chilometri di distanza; loro però mi
dissero che avrebbero preferito fare una passeggiata, così non insistetti e me
ne andai anch’io a dormire.
Mi fu difficile prendere sonno. Alessia mi aveva trattato quasi da estraneo e
nel vedermi non aveva tradito neppure una minima emozione, un sorriso.
Ripensavo alle numerose cose che con Alessia avevo condiviso, agli amici,
alle serate. Non potevo provare rimpianto per quel periodo della mia vita,
che aveva finito per catapultarmi su un’isola sperduta nell’oceano Atlantico
e ipotecare tutto il mio futuro. Del resto, emergeva chiaramente dal modo in
cui aveva affrontato l’argomento che neanche lei ne provava. Avrei forse
desiderato il contrario? Avrei forse voluto che lei sentisse il bisogno di
passare un po’ di tempo da sola con me, senza Mirko, per rivangare assieme
gli episodi che avevamo passato, per ridere e darci pacche sulle spalle, per
piangere e ricordare tutte le persone che si erano affacciate sulle nostre vite
per poi scomparire? Cosa volevo da lei? Non potevo semplicemente
ignorarla, lasciarla nell’angolino buio del mio cervello in cui era rimasta in
questi ultimi anni?


TRENTASEI ORE CONSECUTIVE
Dopo il nostro primo incontro, iniziai a passare tutte le mie giornate con
Alessia. La mattina andavo a prenderla in stazione e andavamo in
università assieme. Durante gli intervalli tra le lezioni andavamo a
passeggio per il centro o a prendere un tè da qualche parte. Siccome lei
abitava a Pontedera, la sera era complicato vedersi. Ma anche poche ore di
lontananza erano troppe per entrambi. Così capitava che andassi a trovarla
anche la sera e restassi a dormire da lei, in camera di suo fratello. Per
stare con lei avevo diradato le frequentazioni coi miei amici di Firenze. Ai
suoi genitori la mia presenza non dava fastidio, anzi lei aveva raccontato
loro la mia storia e evidentemente si erano mossi a compassione. O forse
pensavano addirittura che fossimo fidanzati.
Nel giro di qualche settimana, ero entrato nel giro dei suoi amici. Lei
voleva condividere con me le cose belle che aveva, ed aveva insistito con
tale vigore da vincere la mia timidezza e le mie resistenze. Non mi era mai
capitato di sentirmi così accolto e accettato da estranei. Non c’era stato
bisogno di frasi di circostanza, sorrisi di convenienza, interessi simulati.
Anzi, per certi versi non c’era nemmeno bisogno di parlare. Si sapeva, da
dove venivamo e dove saremmo andati a parare.
E saremmo andati a parare sulla spiaggia di Tirrenia, all’Imperiale. La
prima volta fu un sabato sera dell’aprile 1993. Io non avevo la più pallida
idea di dove sarei finito. Prima di allora ero andato a ballare rarissime
volte, nelle occasioni tipiche: feste comandate, compleanni, capodanni.
Però avevo imparato a fidarmi di Alessia, e in tutti i posti in cui ero andato
con lei avevo finito per sentirmi a mio agio. E poi questo Imperiale
ricorreva nei discorsi dei miei nuovi amici, e rappresentava per loro un
polo di attrazione. Non potevo perdermi un’esperienza del genere. E
neanche Niccolò poteva. Ancora non avevo avuto modo di presentargli
Alessia, ma quella mi era sembrata un’occasione perfetta. Lui fece un po’
di resistenza, ma alla fine si lasciò trascinare.
Fu quella sera che incontrammo Matteo per la prima volta. Originario di
Carrara, ma trapiantato a Firenze per studiare architettura, Matteo non
era una conoscenza diretta di Alessia, ma riforniva di ecstasy il suo gruppo,
e spesso andava a ballare con loro. Matteo faceva il corriere, ogni mese un
viaggio in auto in Olanda per il pieno, e poi smerciava la roba agli amici o
agli spacciatori al dettaglio che conosceva. Matteo era abbastanza diverso
da come potevo immaginarmi uno spacciatore. Faccia pulita, capelli chiari
lunghi, dimostrava meno della sua età, ma cionondimeno dava
l’impressione di essere una persona matura, controllata, che sapeva far
fronte alle situazioni. Insospettabile.
Fu lui a condurci quella sera. Prima a fare la tessera di iscrizione, poi su
per le scale, e infine entrammo nel locale. Erano circa le due. Una sala
enorme, aperta sul mare. Musica pesante, che sembrava staccarti da terra.
In console, accanto al deejay, c’era un tipo bassino e magrissimo, con dei
capelli neri lunghissimi, vestito tutto di pelle. Quel tipo era Franchino.
Appena vide entrare Matteo, prese il microfono:
– Ohhh, arriva Teo con due nuovi amici… ditemi i vostri nomi ragazzi…
allora benvenuti a Jacopo e Niccolò, la loro prima volta all’Imperiale…
Matteo si fece avanti sotto la consolle, tirò fuori dalle tasche tre pasticche e
le piazzò sul piatto che girava. Franchino le guardò girare per qualche
secondo con uno sguardo da bambino incuriosito. Ne prese una in mano e
se la mise in bocca. Poi ne prese un’altra e me la porse:
– Chicco, questa è la prima chicca della tua vita.
Non c’era da avere paura, era tutto così bello, vedevo in pista la gente che
ballava e si abbracciava. Sarebbe andato tutto bene. Presi la pasticca.
Sopra c’era disegnata una stella. Cacciai una risata isterica e me la ficcai
in gola. Niccolò sembrava più titubante, ma non poteva fare altro che
seguirmi. I ragazzi in pista applaudirono, e ci unimmo a loro a ballare.
Dopo una ventina di minuti iniziai a sentire una specie di formicolio caldo
alle braccia, molto piacevole. La sensazione di calore e di energia si
diffondeva, e dopo qualche altro minuto mi arrivò in testa. Le luci si
sdoppiavano davanti ai miei occhi. Mi sentivo trasportare verso l’alto. E
poi la botta. Come un’esplosione di luce. E allora mi sentii davvero bene.
In perfetta sintonia con il mondo, innamorato di tutto quello che avevo
attorno.
Una ragazza ballava vicino a me. Prima che mi salisse le avevo dato
un’occhiata. Poteva anche essere carina, ma come facevo al solito, col mio
consueto cinismo, le avevo trovato dei difetti, e avevo deciso che non valeva
la pena.
La guardai di nuovo. Era bellissima. Si muoveva alla perfezione. Aveva le
mani lunghe e convesse di una danzatrice orientale. Poi mi guardò e mi
sorrise. Il cuore iniziò a battermi forte. Non avevo mai provato nulla del
genere per una ragazza. Non ero mai stato innamorato. Tutto quello che
avevo provato prima di quel momento svaniva, sfumava, sembrava
irrilevante. Quello era l’amore. Iniziammo a ballare vicini, poi ci
prendemmo le mani e ci baciammo. Era meraviglioso. Quello era l’amore
romantico, quello che si legge nei libri, quello di cui tutti parlano. Era
quello che avevamo sempre cercato. Le persone intorno a noi ballavano e si
abbracciavano. Era quello che avevo sempre cercato.
Poi ci spostammo nel privé, che aveva delle comodissime poltroncine basse,
una finestra sulla spiaggia e un proiettore che sparava sul muro immagini
colorate. Marianna, si chiamava, e volevo sapere di lei, le raccontavo di
me, e le parole mi si formavano in bocca e uscivano fluide, quasi senza che
le controllassi.
Verso le cinque Marianna se ne andò e Matteo venne a recuperarmi.
– Vieni che ti presento a un po’ di amici.
Persone che, in altre situazioni, non avrei neppure considerato, o avrei
deriso con snobismo, quella sera mi sembravano persone eccezionali, come
me, e le parole mi fluivano lineari, e non sentivo nessun imbarazzo.
Ruggero di Flower Power, che ci invitò a casa sua a Quezzi per un risottino
ai funghi. Marco di Starlight, che lavorava nel settore “trasporti”, mentre il
suo socio Giovanni era “commerciante al dettaglio”. Raul, che diceva di
fare il “coltivatore diretto”. Dante Alighieri, al secolo un avvocato di Roma
che arrivava a Tirrenia col treno, vestito col completo scuro da ufficio,
scendeva in spiaggia e si cambiava indossando il costume del poeta. Un
filo rosso ci univa. Eravamo tutti stati rifiutati dall’ambiente al quale
eravamo predestinati. E ne avevamo consapevolezza. Quello che
cercavamo, in qualche modo, era una nuova famiglia.
Scendemmo in spiaggia. Vidi Niccolò ed Alessia che passeggiavano
tenendosi per mano. Ci sedemmo sulla sabbia a parlare, come se ci fossimo
conosciuti da una vita. Era così che avrei immaginato un fratello maggiore.
E alla fine, come un fratello maggiore avrebbe fatto, mi sottopose a un rito
di iniziazione. Camminammo per parecchi minuti sulla sabbia fino ad
arrivare a una palazzina abbandonata, a quanto pare una colonia estiva
costruita nel ventennio. Entrammo e salimmo le scale, e la luce della luna
filtrava attraverso gli enormi lucernari. Arrivammo in una sala con diversi
finestroni. Matteo si tolse la giacca ed estrasse una pistola dalla cintura.
Me la porse.
– Fidati – disse.
Feci fuoco, e vidi una crepa che si disegnava sul vetro come una ragnatela,
vidi i pezzi saltare qua e la è riflettere la luce della luna sulle pareti, come
una scena al rallentatore. Lanciai allora un grido belluino, liberatorio. Un
qualcosa che da lungo premeva dentro di me si era finalmente liberato.


NON STATECI VICINO, PERICOLO DI MORTE
Con l’aiuto di un po’ di alcool, la notte dormii profondamente e la mattina
mi svegliai di buon’ora, deciso ad archiviare l’esperienza della sera
precedente e, soprattutto, il ricordo di Alessia. Mi rendevo conto da solo,
tuttavia, che la speranza che Mirko non si ripresentasse era del tutto vana.
Oggi è venerdì, pensavo mentre mi recavo all’aeroporto a riprendere Luca.
Dovrebbero ripartire domani o al massimo dopodomani. Può darsi che, al
più, vengano a salutarmi stasera dopo cena.
Il piccolo bimotore a elica atterrò che la pista era ancora piena di capre. Il
pilota scese e aprì il vano bagagli; i passeggeri si precipitarono a rovistare
per cercare la propria valigia. Luca si fece avanti, mi salutò e insieme
salimmo sul furgone. Non feci parola dell’incontro del giorno precedente,
ma lui si avvide del mio turbamento:
– Mi sembri più cupo del solito, è successo qualcosa?
Ma stavo cercando di dimenticare quell’incontro, e parlarne mi sembrava il
modo peggiore per farlo. Quindi preferii lasciar cadere.
– No, niente, diciamo che sull’isola c’è una mia vecchia conoscenza. Ma
non dovrebbe creare problemi.
La vecchia conoscenza non si fece rivedere, ma come sospettavo, la nuova
conoscenza mi aspettava invece al bancone del bar per gustare il nostro
ottimo caffè. Luca si fece avanti e si presentò; Mirko lo colmò subito di
orgoglio dicendogli che il nostro caffè era il migliore che avesse mai
gustato, anche in Italia. Luca gli sorrise e se ne andò nella sua camera a
posare il bagaglio.
– Allora, come va?
– Bene, passavo a fare un giro. Alessia è in spiaggia a prendere il sole.
– Ah.
Il silenzio si frappose tra noi. Perché era venuto da solo? Alessia non voleva
vedermi? Di nuovo, le parole mi uscirono incontrollate:
– Senti, immagino che domani o dopodomani ripartiate, no?
– Si, domani a mezzogiorno.
– Allora perché stasera non venite con me a fare un giro, vi porto nel
deserto.
– Mi farebbe molto piacere. Veniamo da te dopo cena, allora?
Mi morsi le labbra ripensando a quello che gli avevo proposto.
– Si, va bene. Ci vediamo dopo.
Passandomi le mani tra i capelli, raggiunsi Luca nel suo appartamento.
– Ma chi era, quello la tua vecchia conoscenza? Mi sembra piuttosto
innocuo.
– No, in realtà è sua moglie. Anche lei è innocua, almeno in senso stretto.
Mi sa che l’ho combinata grossa. Gli ho promesso che stanotte li avrei
portati nel deserto.
– E allora? Non è certo la prima volta che portiamo qualcuno nel deserto di
notte.
– No, è che non so se mi va di farlo. Ma le parole mi sono come uscite da
sole.
– Chissà, forse desideri inconsciamente liberarti di entrambi… ad ogni
modo la pistola la tengo io.
Luca sorrise, e anch’io restituii il sorriso. Chissà, davvero, come erano
saltate fuori quelle parole. Certo è che Alessia, di notte, si faceva molto
bella. Di giorno non era nulla di speciale, e non la si sarebbe potuta dire una
bella ragazza. D’accordo, le sue movenze avevano un certo fascino, ma
esteticamente era piuttosto anonima. Alla luce della notte invece si
trasformava. Le si illuminavano gli occhi. Piccoli, color nocciola,
diventavano come due piccoli fari scintillanti. Forse avevo il desiderio di
rivederla come meglio la ricordavo. Nel buio completo, alla luce della luna.
La sera prima non mi aveva fatto una grande impressione. Molto curata,
abbronzata e ben truccata, sembrava però piuttosto invecchiata, e aveva
apparentemente perso la freschezza che mi ricordavo esserle propria.
Passai il resto pomeriggio a pregustarmi la visione serale del volto di
Alessia illuminato dalla luce della luna. E pensavo anche a come mai non si
era fatta viva per rivedermi da sola. L’altra sera ci eravamo trattati quasi da
estranei. Possibile non avesse voglia di rivedermi, di abbracciarmi? Certo,
neanche io sapevo se avevo davvero voglia di rivederla, di sicuro un
incontro più intimo avrebbe potuto riaprire ferite ancora pronte a
sanguinare.
Fui sorpreso quando, alla sera, vidi arrivare Mirko da solo.
– E tua moglie dove l’hai lasciata?
– Non è voluta venire, ha detto che l’escursione nel deserto l’abbiamo già
fatta.
– Ma di notte è tutta un’altra cosa!
– È quello che le ho detto anch’io, ma non c’è stato verso di farla ragionare.
– Beh, peggio per sé, non sa quello che si perde. Ma tu vuoi andare lo
stesso?
– Certo, sono qui apposta.
– E la lasci da sola?
– Si, mi ha già rotto le scatole con questo comportamento.
Mentre guidavo e la voce di Mirko mi raccontava del lavoro di Alessia,
pensavo tra me e me:
– Almeno questa volta ha una buona ragione per non presentarsi.
Era davvero così, o ero io che attribuivo importanza eccessiva alla mia
figura? Poteva benissimo darsi che per lei, oramai, non fossi altro che un
imbarazzante fardello del suo passato. O addirittura niente, né un fardello,
né tantomeno imbarazzante.
Il deserto di Viana occupa una porzione relativamente piccola dell’isola e si
estende per circa 50 chilometri quadrati. Tuttavia, è un deserto vero e
proprio, con la sabbia e le dune. La sabbia, per l’appunto, arriva dal deserto
del Sahara, portata dal vento. Di giorno è molto bello, la notte è
meraviglioso. La sabbia diventa gelida, e con la luna piena e alta nel cielo
prende un colore argenteo indescrivibile. Arrivammo allo spiazzo antistante
l’inizio delle prime dune, dove di solito si fermano i giri turistici.
– Scommetto che vi hanno fatto scendere qui e vi hanno fatto fare quattro
passi tra queste prime dune, sbaglio?
– No, effettivamente non ci siamo allontanati da qui…
– Adesso ti faccio vedere il vero deserto.
Innestai la trazione integrale e portai il furgone fuoristrada, costeggiando le
dune. Dopo un paio di chilometri, quando ormai le luci del villaggio di
Rabil non erano più vista, fermai il motore.
– Eccoci qua, in questa zona non ci viene quasi mai nessuno. E sì che è una
delle più belle di tutta l’isola, perché da qui si vedono bene le montagne
dell’interno.
Avanzammo sulla sabbia per qualche centinaio di metri, e nel momento in
cui il furgone scomparve dal nostro orizzonte, nascosto dalle dune, mi
fermai. Con le mani sui fianchi, alzai lo sguardo verso i monti. La luna alta
nel cielo dipingeva il cielo di blu notte, e la sagoma nera delle montagne
nascondeva un tratto di cielo stellato. Mirko mi imitò. Evidentemente, il
momento gli suggeriva delle riflessioni.
– Sai che ho conosciuto Alessia in un modo bizzarro? In un viaggio con
Avventure nel Mondo, a Cuba. Lei era con un’amica, io invece ero da
solo. Se ci ripenso, allora mi sembrava un tipo così diverso…
Pausa.
– Hai presente il classico colpo di fulmine? Come un’attrazione irresistibile.
Annuii con fare distratto. Mirko se ne avvide.
– Ma… che c’è che non va, perché non ti va di parlarne? Dì la verità, hai
avuto una storia con mia moglie?
A questo punto mi aveva praticamente incastrato. Non mentii, ma non ce la
feci a dirgli tutta la verità.
– No, a dire la verità no. Certo, eravamo ottimi amici, diciamo che ero il suo
confidente… Abbiamo frequentato lo stesso gruppo di amici per qualche
anno. Alessia ha conosciuto Niccolò, il mio più caro amico, e sono stati
insieme per un po’. Avevamo passato tutta l’infanzia insieme, alle scuole
elementari, ai giardini, poi alle medie, al liceo.
Mi alzai bruscamente in piedi. Avevo voglia di correre via, di tuffarmi nella
sabbia gelida e scomparire. Chiusi rapidamente il discorso parlando di un
incidente in cui Niccolò aveva perso la vita.
– Ah, capisco, ecco perché non ti va di parlarne. Effettivamente mi ero
accorto della cosa già l’altra sera, era come se in qualche modo tu cercassi
di evitare Alessia. Adesso capisco anche perché lei non sia voluta venire
stasera. Sai, mi ha parlato tante volte di Niccolò, quando ci siamo
conosciuti lei era ancora molto legata al suo ricordo. Una cosa terribile
quell’incidente, pensare che Alessia doveva essere in macchina con lui!
Buffo, anche Alessia aveva avuto la stessa idea, anche lei gli aveva parlato
di un incidente. E nella sua ricostruzione lei pure avrebbe dovuto esser
morta.
– Senti, guarda, non so come dirtelo, ma insomma, ecco, mi sento un po’ a
disagio… forse è meglio che ti riaccompagni al villaggio.
– Certo, capisco. Non preoccuparti.
Non ho mai creduto alle storie sul destino, sugli eventi che devono
accadere. Fatto sta, comunque, che entrambe le ruote anteriori del furgone
erano a terra. Si vede che stavolta non potevo scappare. Cercai di dar mostra
di aver preso la cosa con sufficiente ironia:
– Allora Mirko, forse ti sarai già accorto che su quest’isola non ci sono i
telefoni cellulari. Quindi ci aspetta una bella passeggiata, a meno che tu
non voglia aspettare che Luca si preoccupi e ci venga a cercare.
Un mezzo sorriso sghembo mi si stampò sulla faccia.
Non so per quale ragione, ma quell’inaspettata avventura mi indusse ad
aprirmi. Mentre camminavamo alla luce della luna, guidati dalla posizione
delle stelle, parlai a Mirko della mia infanzia con Niccolò, del nostro
crescere insieme, dell’incontro con Alessia.
– Due persone insolite. Stavamo quasi sempre per conto nostro, fin da
piccoli. Al liceo, negli anni in cui tutti più o meno partecipano ai gruppi di
amici, alle feste, beh, noi ci vedevamo solo con Luca e con altri pochi per
fare giochi di ruolo. All’università le nostre strade si separarono per un
breve periodo. Lui si iscrisse a Giurisprudenza, io a Chimica. Il primo
anno, io persi entrambi i miei genitori e mi tuffai completamente nello
studio. Fu l’anno dopo che conobbi Alessia. Lei fu molto preziosa per me:
l’unica persona che sapeva ascoltarmi in quel periodo. La presentai a
Niccolò, e lui se ne innamorò subito. Fu così che iniziammo a uscire col
suo gruppo di amici. In un certo senso fu una cosa benefica per entrambi.
Ci portò in qualche modo a uscire dal guscio nel quale eravamo venuti su.
– Che strano, per come conosco Alessia ora non la direi un tipo che può
trascinare, coinvolgere in giri di amicizie. Quando l’ho conosciuta era da
sola con questa sua amica, Denise. Magari l’hai conosciuta anche tu, sono
amiche d’infanzia.
Denise, certo che l’avevo conosciuta. Anche lei era rimasta in un angolino
buio dei miei ricordi. Bastava nulla per far riaffiorare tutto.
Continuammo a camminare conversando piacevolmente su questa falsariga.
Mirko mi raccontò della sua storia con Alessia, di come l’aveva corteggiata
e delle cose che avevano fatto assieme. Non affrontai di nuovo la morte di
Niccolò, né mi spinsi a raccontare cosa ci era capitato dopo esserci
ambientati nel gruppo di amici di Alessia. Per arrivare all’albergo ci vollero
più di quattro ore. Com’era prevedibile, Alessia, allarmata per il ritardo del
marito, era arrivata all’albergo. Si vedeva già da lontano che era furiosa.
Luca, che si trovava seduto a uno dei tavolini del bar di fronte a lei, stava
cercando di placarla, con scarsi risultati immaginavo.
Appena mi vide mi si gettò addosso e mi appiccicò uno schiaffo.
– Ma che cavolo ti sei messo in testa di fare, eh?!?
Riuscii a mantenere la calma:
– Niente, siamo semplicemente andati a vedere il deserto di notte. Abbiamo
forato entrambe le ruote anteriori del furgone, tutto qui. Può capitare.
– Può capitare un cazzo!!! Cos’era, un’altra delle tue avventure del cavolo?
Ma perché devi mettere sempre in pericolo le persone che ti stanno vicino,
eh?!? Non ti è bastato Niccolò, volevi prenderti pure Mirko?!?
Mirko spostava freneticamente lo sguardo da me a sua moglie con aria
interrogativa. Fu allora che persi completamente le staffe:
– Certo che hai un bel coraggio a tirare fuori Niccolò adesso! Se non ti
avessimo conosciuto saremmo ancora due sfigati di buona famiglia, lui
farebbe l’avvocato o il notaio e io di sicuro non sarei su quest’isola
deserta del cazzo!!! Se c’è qualcuno che si è preso Niccolò, quella sei tu.
Afferrai la bottiglia di grogue che si trovava sul tavolo, ne bevvi un sorso
convulso che mi fece quasi soffocare e la scaraventai contro la parete. La
bottiglia andò in mille pezzi, e i frammenti di vetro lanciarono per un istante
lampi colorati sul soffitto. Col volto rigato di lacrime miste di rabbia e
dolore mi precipitai su per le scale. Trovai la forza per reprimere i
singhiozzi, mi voltai e gridai:
– Ma perché non mi lasciate in pace?!?



L’IMPERIALE VUOL DIRE AMARSI, VUOL DIRE: FACCIAMO
L’AMORE
Denise era la migliore amica di Alessia. Non fu tra le prime persone che
conobbi del mio nuovo gruppo di amici: si trovava a Londra per un
soggiorno di studi quando fui introdotto. Una sera di giugno ero passato a
prendere Alessia per andare all’Imperiale e poi c’eravamo fermati a
prendere Denise, a Ponsacco. Io all’inizio avevo detto a Alessia che le avrei
aspettate in macchina; fu lei a insistere perché scendessi. Denise abitava in
una villa moderna alle porte del paese, con un ampio giardino recintato e
una bella piscina. Il padre era un ricco industriale mobiliere.
Quando entrammo nella sua stanza, era ancora seminuda. La camera era
quella di una preadolescente: letto a baldacchino bianco, carata da parati
color lavanda, un numero impressionante di bambole. Ci incrociammo lo
sguardo, e provai subito per lei una fortissima attrazione. Denise aveva un
viso un po’ sgraziato, ma un fisico perfetto e due occhi magnetici neri come
il carbone. Lei mi squadrò e mi sorrise.
– Alessia me lo devi prestare per un attimo – disse.
– Bene, io nel frattempo vado in cucina a farmi un caffè.
Denise chiuse la porta e mi prese per le mani. Io non avevo ben chiaro cosa
si aspettasse che io facessi, ma fu lei a condurre il gioco, e finì che
facemmo l’amore sul suo letto con le bambole. Alessia non mostrò di essere
colpita dalla cosa; evidentemente doveva essere abituata a comportamenti
del genere, pensai.
La cosa buffa con Denise era che tutte le volte che ci vedevamo non c’era
mai da far conversazione, e si arrivava subito al dunque. Spesso,
all’Imperiale, ci cercavamo in pista con lo sguardo, uno dei due prendeva
l’altro per mano, e abbracciati scendevamo in spiaggia a fare l’amore,
senza dirsi una parola.
– Chicco e Denise se ne vanno, vanno a fare all’amore… bravi, fate bene
cari, fate bene… – annunciava Franchino al microfono.
Invece per Alessia e Niccolò era diverso. Anche loro scendevano in
spiaggia abbracciati, ma loro parlavano, si sfogavano, si raccontavano. Un
po’ come Alessia era la mia confidente, Niccolò era il confidente di lei.
Niccolò era una persona molto più equilibrata di me, e in quel ruolo era
perfetto. L’ascoltava, la coccolava, si prendeva cura di lei.
Solo dopo diverse settimane che si frequentavano scoppiò la scintilla e si
baciarono. Io continuavo a vedere Alessia in università e a sentirla
regolarmente. Lei si consigliava con me e mi chiedeva di Niccolò, voleva
sapere se averlo baciato ed essersi mettersi insieme a lui era stata una
buona idea o avrebbe rovinato tutto. Io non la vedevo tanto in questi
termini, e oscillavo tra la convinzione che stare con Alessia a Niccolò
avrebbe fatto senz’altro benissimo e il presagio che ne sarebbe venuto fuori
qualcosa di disastroso.



PER NON ANDARE DOVE NON PUOI ANDARE FANNO I
CARTONI ANIMATI
Magari la gente mi ha sempre visto come una specie di scienziato pazzo
con la testa tra le nuvole, ma io sono assolutamente convinto di essere una
persona molto concreta. Non ho mai pensato di studiare matematica, una
disciplina completamente astratta nella quale il risultato degli sforzi che
uno compie sono oggetti altrettanto astratti e impalpabili. Della chimica mi
è sempre piaciuta l’idea di ridurre la materia a una serie di formule e alla
combinazione di particelle elementari, e il fatto di poter riprodurre e
osservare personalmente i risultati teorici in laboratorio.
Quando procedi a una sintesi è una sensazione meravigliosa. Ti senti come
un vero scienziato. Il camice, il laboratorio improvvisato nella cantina
della colonica, Niccolò e Matteo, davanti a me, in attesa che i cristalli si
condensino.
Per procurarsi il materiale necessario è sufficiente fare un giro in Olanda.
Bastano pochi milioni per attrezzare un laboratorio completo. Le sostanze
necessarie, poi, si trovano con facilità in qualsiasi laboratorio universitario
di chimica organica, o anche in negozi specializzati in forniture chimiche. A
volte può essere un problema procurarsi la metilammina, perché a quanto
pare è una sostanza controllata, e non la si può comprare se non con
un’autorizzazione particolare. Ma, con un po’ di pazienza e cautela, la si
può sottrarre poca alla volta da un laboratorio universitario senza dare
troppo nell’occhio.
E quando alla fine provi il risultato del tuo lavoro su te stesso, quasi fosse il
vaccino per una malattia incurabile, senti anche un brivido di paura.
Dopotutto, potresti anche aver sbagliato qualcosa. Ma alla fine, la roba
fatta con le tue mani è sempre la più buona del mondo, e le sensazioni che
ho provato la prima volta non le ho più riprovate. Alla prima, ne presi 50
milligrammi. Meno di metà dose, giusto per stare sicuri, nel caso avessi
fatto qualche cazzata. Niccolò e Matteo erano con me, avevano pronto un
emetico e la macchina per portarmi in ospedale se mi fossi sentito male.
Ma bastarono venti minuti per capire che era tutto a posto, e che era venuta
proprio bene. Nulla a che vedere con quella che avevo provato finora.
Tagliata chissà con cosa, altri anfetaminici o addirittura aspirina. La sera
dopo ne presi centoventi milligrammi. E allora si che mi sembrò di volare.
Non ce la facevo a stare chiuso in casa ad aspettare che mi calasse, e
pregai Niccolò e Matteo che mi portassero fuori. Niccolò preparò due
bustine da cento milligrammi l’una. Matteo accese la macchina. Era
venerdì, e come diceva Francesconi: “conosco la mia strada: è venerdì
notte, vola Torquemada!”. Per arrivare a Campi Bisenzio ci vollero circa
quaranta minuti. C’era un sacco di gente quella sera, suonavano Stefano
Bratti e Francesco Farfa, più uno spettacolo del Principe Maurice. Coda
incredibile all’ingresso, io non ce la facevo ad aspettare fermo. Matteo
chiamò Alessandro, lui vide lo stato in cui ero, cacciò una risata e ci fece
passare. Ricordo che Matteo mi abbracciò e gli disse:
– Sai che quella di stasera se l’è fatta da solo, il piccolo chimico?
Alessandro rise di nuovo, Matteo tirò fuori la bustina coi cristalli non
ancora pressati e gliela mostrò. Poi Matteo e Niccolò presero la loro dose.
E mi raggiunsero tra le stelle.


IMPERIALE MI HAI FATTO ANCHE SOFFRIRE
Quella notte non chiusi occhio. Alle sette mi alzai dal letto, ma invece di
scendere subito in cucina aspettai che Luca si svegliasse per fare colazione
con lui. Alla fine, poco dopo le otto, sentii la porta della sua stanza aprirsi.
– Buongiorno.
– Buongiorno una sega.
– Credo di aver capito la situazione. Lei era la ragazza di Niccolò.
– Possibile che mi debba perseguitare anche qui? Io sono venuto per stare in
pace, lontano da lei e dal suo mondo.
– Veramente credevo che tu fossi venuto qua per non andare in galera.
– Non dire idiozie. Non ho paura della galera.
– Ti hanno dato sei anni in contumacia.
– E allora? Io sono venuto qua perché non potevo reggere il peso della
morte di Niccolò.
– Questo è quello che racconti a te stesso.
– Che fai adesso, ti metti a farmi da coscienza critica?
– Come vuoi. Cerco solo di aiutarti. Devi essere consapevole della
situazione. Sei solo tu che dai a Alessia tutto questo peso. Ti assicuro che
lei non corrisponde.
– Lo so.
– E ti dispiace.
– Forse.
– Avrei voluto vederla vestita a lutto?
– No. Forse mi avrebbe fatto piacere che lei mi avesse cercato per parlare di
Niccolò. Non l’abbiamo mai fatto, non ne abbiamo mai avuto occasione.
Forse li ho invitati con questa speranza.
– Evidentemente Alessia ha superato la questione meglio di quanto non
l’abbia fatto tu.
– Questo lo vedo.
– E questo non vuol dire che lei sia insensibile, o che non le dispiaccia.
– Mi ha fatto veramente imbestialire insinuando che la morte di Niccolò sia
stata colpa mia. Se qualcuno ha una colpa, quella è lei.
– Nessuno ha colpa. Siete stati voi a scegliere quella strada. Tu e Niccolò,
autonomamente l’uno dall’altro. Lui non ti ha seguito per inerzia. Né ha
seguito per inerzia Alessia. Eravate entrambi consapevoli di quello a cui
andavate incontro. Io e Marco ve ne abbiamo parlato varie volte, mi pare.
Famiglia Imperiale, dicevate. O meglio, tu dicevi. Non c’era verso di
discuterne. Tu non ragionavi, facevi discorsi campati in aria e ti
arrabbiavi. Niccolò non parlava. Prendeva quell’aria da vittima che ci
faceva imbestialire a tutti. Sembrava che di averlo precipitato in quella
situazione accusasse il mondo intero. Noi inclusi.
– Già, famiglia Imperiale. Io ci credevo davvero. Mi chiedo se anche
Niccolò ci credesse, o se volesse solo stare con Alessia.
– Questo non lo possiamo sapere. Ma in ogni caso, anche se fosse, non
vorrebbe dire che è stata colpa di Alessia. Io direi che rispondeva tutto a
delle sue personali pulsioni. Ho sempre pensato che fosse un modo di
ottenere attenzione.
– Si, forse hai ragione. Devo solo smetterla di pensarci. Tutto qui.
Io alla famiglia Imperiale ci credevo. E mi sentivo di farne parte. Cominciò
tutto con pochi amici nel salone da ballo con la terrazza, qualcuno metteva i
dischi. Franchino allora faceva ancora il parrucchiere all’isola d’Elba e
veniva a intrattenerli con le sue storie. Poi nacque l’idea del club, si
iniziarono a chiamare i deejay emergenti, Miki, Andrea Giuditta, Ricky Le
Roy. E nel giro di un anno Tirrenia era diventato il cuore pulsante d’Italia, e
non solo. Tutta la Toscana, Genova, Roma, Torino. Qualcuno anche dalla
Svizzera, dalla Francia e da Londra.
I problemi sono arrivati dopo. Quando hanno iniziato a girare troppi soldi e
troppe persone. All’inizio ci conoscevamo tutti. Ci si poteva fidare. E anche
coi nuovi arrivati, ci si intendeva subito. Ci legava la consapevolezza e il
rifiuto del mondo a cui eravamo per nascita predestinati. E non da parte
nostra: non eravamo noi che rifiutavamo il ruolo che la vita ci avrebbe
voluto assegnare. Era il ruolo, o meglio l’umanità che attorno ad esso
ruotava, a rifiutarci. La famiglia Imperiale era un mondo separato. Il paese
dei balocchi. Nessuno fuori ne sapeva nulla. Nemmeno si poteva sospettare
l’esistenza di un mondo del genere.
Poi a un certo punto il meccanismo si è inceppato. Credo sia iniziato quando
la voce ha cominciato a girare. Allora certi hanno iniziato a venire perché
c’erano parecchie ragazze, e perché si diceva che erano facili. Alcuni
venivano perché si poteva trovare roba buona a prezzi concorrenziali, e
senza troppi problemi. Certi altri perché era una cosa insolita, di cui vantarsi
con gli amici. E molti ci si sono buttati perché iniziavano a girare soldi. Ma
quelli non facevano parte della famiglia. Hanno rovinato tutto.


VOGLIO VIVERE SOLTANTO IN AFTERHOUR, E ALLORA?
Se ci ripenso, posso tranquillamente giurare che quello che poi è successo
non era nei nostri intenti. La prima volta lo affrontai come una prova;
vedere se ero davvero un buon chimico come tutti i miei colleghi e i miei
professori si aspettavano. Mostrare che ero in grado di concludere una
sintesi da solo. Le prime volte ne facevo 40 grammi per volta. Bastavano
per circa trecento paste. Ne portavamo qualcuna per noi, e qualcuna la
regalavamo agli amici. Tutti ci dicevano che era roba ottima, neppure
paragonabile a quella che si trovava in commercio. Per me era una
soddisfazione enorme: famiglia imperiale, non solo ricevo, ma provvedo
anche al tuo sostentamento. “A Tirrenia c’è la musica, da Firenze arrivano
le cale”, diceva Franchino.
Non ricordo con esattezza quando cominciammo a venderle. Direi che la
parte maggiore in questo l’ha avuta Matteo. Lui era già introdotto nel giro,
e aveva intravisto nella mia abilità con la chimica la possibilità di evitare
le trasferte in Olanda e di incrementare i guadagni. Io vedevo la mia
attività come un qualcosa che facevo per la famiglia, per le persone a cui
volevo bene, e non mi andava l’idea di guadagnarci su. Però portarsene
dietro così tante era un grosso rischio, diceva Matteo, e bisognava essere in
qualche modo compensati. Inizialmente le vendevamo noi, agli amici e alle
persone fidate. Poi Matteo iniziò a contattare degli spacciatori. Era più
semplice e meno rischioso. Ci vedevamo per cena in qualche ristorante sul
mare. Spesso alla torre di Calafuria. Dopo cena, mentre Niccolò pagava il
conto, io e Matteo tornavamo alle macchine e passavamo la merce. Alle
volte, quando avevamo qualche sospetto, si occupava di tutto Denise. Io
andavo a casa sua, lei mi aspettava già eccitata. Facevamo una sveltina e
poi le passavo la roba. Lei se la nascondeva addosso, nella biancheria
intima, e la portava al destinatario. Era estremamente affidabile: mai, tutte
le volte che l’ho vista con della roba addosso, che abbia tradito
un’emozione. Una statua di ghiaccio. Perfetta per questo genere di cose.
Nei primi anni, comunque, era una ambiente relativamente tranquillo.
Certo, avere a che fare con gli spacciatori poteva essere rischioso. Matteo
portava sempre con sé una pistola. Solo un paio di volte dovette tirarla
fuori e appoggiarla sul tavolo del ristorante. Problemi di merce venduta a
credito.



NON C’È NIENTE DI LEGALE, NON C’ È NIENTE DI ORARIO
Mirko ed Alessia ripartirono senza salutarmi, e io col passare delle
settimane finii per dimenticare quell’incontro. Quell’autunno lavorammo
bene, aiutati anche dagli attacchi terroristici dell’11 settembre: molte
persone decisero di evitare i paesi musulmani per le loro vacanze autunnali.
La seconda metà di novembre, come di consueto, chiudemmo l’albergo.
Luca tornò in Italia a visitare i parenti, io presi la barca a vela e feci una
puntata a Maio.
Quei giorni furono per me benefici. Nella solitudine, ebbi modo di ritornare
con la mente sull’incontro con Alessia e di rielaborare il modo in cui mi ero
comportato. Per certo ero stato aggressivo nei suoi confronti; conoscendola
non c’era da sorprendersi che si fosse chiusa e avesse reagito in quella
maniera. Sicuramente avrei dovuto incontrarla senza il marito, una presenza
che tra di noi risultava inutilmente imbarazzante nonché in qualche modo
anche oppressiva. Senza sapere come trattare certi argomenti, con la paura
di toccare temi che egli non avrebbe compreso. Avrei dovuto vedere Alessia
da solo. Avremmo dovuto parlare di Niccolò, avrei voluto superare insieme
a lei il lutto della sua morte.
Alessia era stata la persona più importante nella mia vita. L’unica che aveva
voluto ascoltarmi, guardarmi dentro, e considerare la sofferenza che le
rovesciavo addosso come un dono prezioso. Accanto a lei mi sentivo bello,
sicuro, importante. Un sentimento fortissimo, e purissimo. Per lei volevo il
meglio, volevo che fosse felice e serena, perché per il bene che mi voleva si
meritava di tutto. Ripensai a tutti i momenti passati assieme, alle notti di
solitudine, alle risate per delle idiozie. Ripensai a come lei mi abbracciava
quando cedeva alla disperazione e piangeva, mi stringeva così forte, come
se fosse sull’orlo di un precipizio e cercasse di aggrapparsi a me. Ripensai a
com’ero felice che lei stesse con Niccolò, perché per me significava averla
sempre vicina, e sapere che era in buone mani. Ripensai a quell’unica volta
che ci scambiammo un bacio. Eravamo appena usciti dall’Imperiale, una
notte di settembre con un vento gelido che soffiava forte dal mare. Alle
cinque erano venuti i carabinieri a chiudere, e noi ci ritrovammo per strada e
senza mezzi di trasporto. Nell’attesa del bus per Pisa, ci rifugiammo nella
cabina telefonica. Ma faceva freddo, ci abbracciavamo forte e alla fine
l’abbraccio si sciolse in un bacio. E allora paura per quello che poteva
significare, paura che avremmo rovinato la nostra amicizia e tradito quella
di Niccolò, e ore di ansia nell’attesa di rivedersi e dover parlare di quello
che era successo. Ci scrivemmo entrambi una lettera, e fu grande la sorpresa
nel constatare che ci dicemmo la stessa cosa: che quel bacio era stato solo
un modo diretto per trasmetterci l’affetto che provavamo l’uno per l’altro.
Non feci che pensare a lei in quei giorni di solitudine. E alla fine mi risolsi a
considerare che forse avrei voluto averla ancora al mio fianco. Ci saremmo
dovuti rivedere, riprendere i fili della nostra amicizia, ricostruire il
sentimento meraviglioso che c’era tra di noi. Mi sarebbe stato di
preziosissimo aiuto, avrebbe spezzato la prigione di solitudine che mi ero
inflitto. Avrei dato tutto me stesso per poterla avere di nuovo vicina.
Quando Luca rientrò, mi fece piacere sapere che era stato a trovare Alessia,
e che anche lei aveva manifestato il desiderio di incontrarmi di nuovo. Luca
disse che Alessia si stava separando dal marito, e che in assenza di
impedimenti sarebbe venuta a trovarci per capodanno.
– Anche Alessia è molto colpita per quello che è successo. Magari sembrava
che fosse riuscita a rifarsi una vita e a tirare avanti, ma dal quel che ho
capito buona parte dei problemi che ha col marito dipendono dal fatto che
lui non sa tutto quello che è successo.
– Evidentemente impostare il rapporto su bugie e silenzi ha il suo prezzo.
Questo comunque era un tratto tipico di Alessia.
– Alessia avrebbe piacere di rivederti in un contesto più sereno e parlare con
te di Niccolò.
– Anche io ci ho pensato durante queste due settimane, e mi sembra una
buona idea. Mi fa piacere che torni a Boavista.


I 7 RE DI ROMA ERANO 4: ROMOLO E REMO
La cosa più terribile è avere un sacco di soldi e non poterli spendere. Ti
senti un interdetto. Sai che in una cassetta di sicurezza hai decine, forse
centinaia di milioni e non puoi comprarti una macchina decente. Puoi
usarli solo per spese di piccolo taglio. Vestiti, cene, qualche viaggio. Ma
anche per i viaggi, non si poteva esagerare. Niccolò aveva un’attenzione
maniacale per questi dettagli. Al limite della paranoia. Era convinto che
qualsiasi negoziante da cui ci recavamo potesse essere un agente in
borghese, o un collaboratore della polizia. Se si accorgono dei soldi che
abbiamo, siamo fregati, diceva.
Niccolò aveva aperto una cassetta di sicurezza a nome di sua madre alla
Cassa di Risparmio di Firenze di piazza Dalmazia. A lei, aveva raccontato
che la cassetta serviva per conservare gli orologi di valore che i genitori e
altri parenti gli avevano regalato, nel corso degli anni, per le occasioni
importanti. Teneva lui la chiave, e gestiva lui i fondi. Alle volte ci lesinava,
altre volte arrivava con in tasca tre mazzette da dieci milioni l’una e ci
diceva che dovevamo spenderle entro la fine della settimana. Altrimenti si
sarebbero accumulati troppi soldi nella cassetta. Allora ci compravamo
qualche vestito, oppure invitavamo a cena i nostri collaboratori e i corrieri
in un ristorante di lusso. Non ho mai saputo quanti soldi ci sono passati da
quella cassetta. Credo molti, però. Quando sono venuto via, c’erano poco
meno di quattrocento milioni. La metà di quello che mi è rimasto la darò a
Matteo, quando uscirà.


IMPERIALE VI FAREMO IMPAZZIRE
Alessia e Denise arrivarono il 28 Dicembre, con un cielo grigio cupo come
non lo avevo mai visto. Andai io a prenderle all’aeroporto. Appena vidi
Denise, un brivido mi corse lungo la schiena. Era sempre molto bella, e
fisicamente non era per nulla sciupata. Mi corse incontro e, prendendomi di
sorpresa, mi saltò in braccio. Mi baciò premendo le sue guance contro le
mie, e poi mi guardò fisso negli occhi, e mi fece un sorriso che mi riempì il
cuore. Poi tornò sulle sue gambe, e io andai incontro ad Alessia. Ci
guardammo negli occhi per un istante, e poi le dissi:
– Sono contento di averti ritrovata.
Lei allora mi si gettò al collo, e mentre singhiozzava restammo abbracciati
per un po’.
Dopo questi saluti, salimmo sul pick-up e partii alla volta dell’albergo. Non
mi andava molto di raccontare i fatti che mi avevano condotto a Boavista,
né tantomeno l’esistenza reclusa e solitaria che avevo condotto in quei
cinque anni. Prima o poi avrei dovuto farlo, ma non mi sembrava il
momento migliore. E poi, preferivo parlarne privatamente con Alessia.
Quindi durante il tragitto mi limitai a presentare l’isola a Denise e a
descrivere quello che avrebbero potuto fare in quella settimana.
Sicuramente avremmo passato la notte di capodanno nel deserto.
Alla fine arrivammo in albergo. Luca ci stava aspettando: salutò Alessia con
un abbraccio e si presentò a Denise. Accompagnammo le ragazze in camera
con le loro valige e scendemmo al bar.
– Allora com’è andato il primo incontro?
– Bene. A dire la verità non ci siamo detti che poche parole, ma sono ancora
commosso. Adesso però ho bisogno di stare un po’ da solo con lei. Appena
scende andiamo a fare una passeggiata in spiaggia.
– Alessia è davvero una bella persona. Mi spiace di averla sottovalutata
quando stava con Niccolò.
– Secondo me tu e Marco avevate sottovalutato un po’ tutti. Comunque si, è
una persona speciale. È un peccato che le cose siano finite così. Pensa se
fosse stato io a introdurla ai miei amici invece che il contrario. Lei non era
alla disperazione come gli altri. Avrebbe potuto fare una vita normale,
laurearsi, sposarsi con Niccolò. Noi saremmo stati i suoi amici.
– Ma sai, sono discorsi un po’ oziosi, le cose sono andate come sono andate,
e evidentemente c’è una qualche ragione per la quale dovevano andare
proprio così. E tu ed Alessia ringraziate il cielo perché Niccolò e Matteo
stanno peggio.
Alessia scese le scale. Portava un abito lungo di lino bianco che le dava
un’immagine quasi eterea.
– Andiamo, Chicca , dissi e le porsi la mano. Lei mi sorrise, e mi porse la
sua, e allora l’immagine del nostro incontro dell’estate passata si dissolse,
e la vidi come la ricordavo.
Scendemmo in spiaggia. Le nubi grigie correvano sullo sfondo dell’azzurro
e all’orizzonte si confondevano col mare color ardesia. Il vento soffiava
forte da ovest e ricacciava la sabbia nel cuore dell’isola.
– Insomma è andata male a tutti e due.
– Già , disse lei abbassando lo sguardo.
– Scusami per l’altra volta. È stata colpa mia. Sono stato aggressivo. Ci ho
pensato molto dopo che siete ripartiti. Forse vederti reinserita in un
contesto normale mi faceva invidia.
– Ti assicuro che non c’era molto da invidiare.
– Tuo marito mi ha raccontato un po’ com’era andata tra di voi.
– Guarda Chicco, è stata una mossa terribilmente sbagliata. Penso tu possa
immaginare come mi sentivo a pezzi. Sai quanto bene volevo a Niccolò.
L’idea del viaggio a Cuba era nata in un periodo in cui mi sembrava più o
meno di aver sistemato tutto. Avevo anche accettato l’umiliazione di
incontrare i suoi genitori. Per un’ora mi sono fatta coprire di insulti e
recriminazioni, e l’unica cosa che sua madre voleva da me erano delle sue
foto e dei suoi oggetti personali che mi aveva regalato. È stata una cosa
infernale.
– Lo immagino Chicca. Sua madre è sempre stata una stronza. Quando
morirono i miei l’unica cosa che riuscì a dirmi fu che potevo contare su di
lei se avevo bisogno di soldi per finire l’università.
– Dopo aver superato questa prova credevo di aver espiato e di poter
ripartire. Avevo anche iniziato a lavorare, avevo recuperato i rapporti coi
miei vecchi amici della parrocchia. Non potevo tenere il lutto per tutta la
vita. Ho cercato di dare un senso alla morte di Niccolò, evitare di sentirmi
responsabile. Mi ha ferito che tu mi abbia attaccato su questo punto l’altra
volta.
– Hai ragione tu, scusami. Ma io sto peggio: non posso nemmeno
andarmene da qualche altra parte e provare a ripartire.
– Ma tu sei venuto qui per provare a ripartire, no? Non mi sembra nemmeno
che le cose ti stiano andando troppo male.
– Ma no, che dici? Come posso ripartire da qui? Che posso fare, sposare una
nativa e mettere al mondo dei figli? La realtà è che sto su questa cazzo di
isola deserta ad aspettare di morire. Non faccio altro che bere e aspettare.
Cercavo la pace e forse l’ho trovata, ma adesso cosa posso fare? Come
posso portare avanti la mia vita? Che cosa ci rappresento io qua?
– Sai Jacopo, tu sei l’unica persona tra quelle che frequentavamo in quel
periodo che immaginavo adulto. Ti immaginavo un uomo bello, elegante,
distinto, con una famiglia e una vita invidiabile. Mi sembrava il tuo
sbocco naturale.
In quel momento, nulla era più fuori della mia portata di una vita distinta e
rispettabile.
– Sai che alle volte la notte mi sveglio in un lago di sudore e con le mascelle
serrate sognando una vita normale, come quella di tutti gli altri? Un
lavoro, le vacanze, una casa da mandare avanti. Ti ho invidiata quando ti
ho vista con tuo marito. Sembravate una coppia normale.
– Figurati. Forse avremmo anche potuto esserlo, ma di sicuro eravamo
partiti col piede sbagliato. Denise mi aveva convinto a questa “battuta di
caccia” a Cuba, come diceva lei. Poteva essere una buona occasione.
Certo conoscere qualcuno fuori dal giro avrebbe potuto essere utile per
ripartire anche in campo sentimentale. Ma mi son mossa male. Lui mi è
piaciuto subito, aveva modi galanti, una faccia pulita, sembrava proprio la
persona normale che cercavo. Ma mi era sembrato poco furbo vomitargli
addosso tutto il mio passato. Allora ho iniziato a cambiare le carte in
tavola e gli ho raccontato una versione molto edulcorata di quello che mi
era successo.
– In effetti quando vi ho visto insieme ho percepito chiaramente che lui non
poteva sapere tutto. Sembravate troppo normali. Una coppia in cui uno ha
sulle spalle quello che hai tu non può sembrare normale. Non sapevo
come comportarmi.
– Anche io ho sbagliato comunque. Sono stata sprezzante nei tuoi confronti.
Era prevedibile che tu ti arrabbiassi. Scusami. Forse volevo solo cercare di
mostrare a me stessa che mi ero davvero gettata tutto alle spalle e tu ormai
eri parte del mio passato.
– Lo pensi davvero?
– Si, lo penso davvero, e lo penso tuttora. Non fraintendermi, sei stato il
migliore amico che abbia mai avuto e abbiamo condiviso le nostre vite.
Non ne avrò mai più di amici come te, questo è sicuro. Ma dobbiamo
ricominciare entrambi, separatamente. Proviamoci. Quando tutto sarà
passato potremo confrontarci.
– Alessia io avrei voglia di stare con te, di averti vicina come un tempo.
Non sai quanto ti ho pensata nella settimana che sono stato qua da solo.
Ho ripensato a tutte le cose che facevamo insieme, a tutto quello che
avevamo condiviso, e quasi m’è tornata voglia di ricominciare a vivere
per poter condividere con te quello che mi sarebbe capitato.
– Jacopo anche a me manca la nostra amicizia, ma non so se ce la potrei
fare a ripartire e a rifarmi una vita avendoti vicino. Mi torna in mente
tutto, a partire da Niccolò, ma non solo lui, tutto quel periodo, quello che
avremmo potuto essere se le cose fossero andate diversamente. E il
rapporto meraviglioso che avevo con te e con Niccolò, non so se potrò
mai trovare qualcosa che gli assomigli anche solo vagamente. Coi vostri
fantasmi che mi girano attorno sarà impossibile conoscere qualcuno e
provare a ricominciare. Sei troppo importante e troppo ingombrante per
me.
Eravamo arrivati alla fabbrica abbandonata sulla spiaggia di Chavez. Ci
sedemmo sulla sabbia. Una profonda tristezza mi aveva invaso. Le lacrime
iniziavano a rigarmi le guance.
– Sai Chicco, il ricordo della nostra amicizia non ce lo potrà mai sottrarre
nessuno. Tutte le volte che vorremo ci incontreremo in sogno.
Lascia cadere la testa tra le gambe. Alessia mi accarezzò i capelli, e mi
sentii ancora più a terra.
– Alessia io forse non avrei avuto nemmeno il coraggio di provarci da solo.
Per questo avrei bisogno di averti accanto, per potercela fare insieme. Ma
ti capisco. E ti ammiro, sei stata forte, più forte di me. Sono sicuro che ce
la farai.
– Cercherò di evitare gli errori che ho fatto con Mirko la prossima volta che
incontrerò qualcuno. Alla fine cercare di apparire una persona normale è
stato controproducente. E lui in fondo era una brava persona e mi amava
genuinamente. Non se lo meritava.
– Da quello che mi ha detto ti ha amato. Quando l’ho conosciuto era
scontento che non facevate più niente insieme.
– Certo, dopo un po’ non riuscivo neppure a parlargli. Poveretto, più lui si
premurava di starmi vicino e cercare di aiutarmi, più mi faceva rabbia
perché ormai dopo tutte le bugie che gli avevo raccontato non potevo
scoprire le carte nonostante non ci fosse cosa al mondo che avrei
desiderato di più. Ma era una cosa nata nel modo sbagliato e non poteva
finire diversamente. Un colpo di fulmine, figurati! Come ho potuto
ingannarmi fino a questo punto? Mi spiace solo di averlo fatto soffrire.
– Perché te la sei presa tanto con me quando siamo spariti nel deserto?
– Ma come, davvero non ci sei arrivato?
– No, non credo.
– Chicco io a Mirko gli ho voluto bene. In ogni caso, era il mio passaporto
per una vita normale. Non volevo che finisse male come Niccolò.
Il discorso si stava facendo scivoloso.
– No, scusa, allora siamo di nuovo al punto di partenza: vuoi sottintendere
che Niccolò ha fatto la fine che ha fatto per colpa mia?
–Scusami. Non intendevo questo. È ancora un tasto sensibile per me,
immagino che tu capisca.
Lei abbassò la testa. La abbracciai.
– Non provarci a ritirare fuori questo discorso – dissi sorridendole.
– No, è che ho immaginato tante volte cosa sarebbe potuto succedere se
invece che essere voi due a uscire col mio gruppo io avessi preso casa a
Firenze e avessi chiuso subito i ponti con quel mondo.
– Buffo, ne parlavo con Luca prima che tu scendessi. Senti Chicca, la verità
è che in quel momento io e Niccolò avevamo bisogno della famiglia
Imperiale, non solo di un’amica e una fidanzata. Doveva andare così, dai.
Adesso basta. Tu che puoi, cerca di ripartire. Ce la stai facendo. Forza.
Alessia mi abbracciò forte. Appoggiando la mia guancia alla sua, sentii la
morbidezza e il calore della sua pelle, e mi ritornò in bocca il sapore dei
molti altri abbracci che ci eravamo scambiati nel corso della nostra
amicizia. E senza riuscire a rompere nel pianto, le lacrime copiosamente
bagnavano le nostre guance.


SE TU DOVESSI SCEGLIERE TRA L’IMPERIALE E UN
CAPANNONE
Antonio Velasquez era uno troppo furbo per i miei gusti. Ma l’Imperiale
non poteva andare avanti. La formula del club consentiva di fare i fuori
orario, ma creava un sacco di problemi perché Roberto era responsabile
praticamente di qualsiasi cosa succedesse. La polizia veniva regolarmente,
e spesso finiva che Roberto si prendeva un multa e il locale restava chiuso
per un mese. Una volta la Bettina si fece letteralmente trascinare via dagli
agenti mentre continuava a urlare nel microfono “Emozione puraaaa
finché ti duraaaa”. E poi era uno stabilimento balneare, e si trovava nel bel
mezzo di Tirrenia, non era posto adatto per il richiamo che aveva iniziato a
esercitare. La gente si lamentava per il traffico e per il rumore, e anche se
si fossero rispettate tutte le regole possibili e immaginabili era solo una
questione di tempo prima che il sindaco revocasse la licenza.
L’Insomnia invece era un capannone industriale alla periferia di Ponsacco.
Tutt’altro posto: niente spiaggia, niente terrazza sul mare. Uno per fare
l’amore doveva rifugiarsi in macchina. E poi doveva chiudere a orari
regolari, e questo alla fine faceva in modo che persone da tanto lontano,
che dovevano spostarsi in treno, non si vedessero. Però Antonio si era
mosso bene, e già da un anno era riuscito a accaparrarsi Miki, Francesco
Farfa, Joy Kiticonti e il Principe Maurice. Erano loro i più bravi, dal punto
di vista musicale erano miglia avanti, e gli altri semplicemente seguivano.
Tant’è che loro in effetti sono sopravvissuti e continuano a fare musica,
mentre gli altri no.
L’Insomnia era molto più grande, era gestito con del personale vero e
proprio e per mandarlo avanti servivano molti soldi e molte presenze.
Quindi si diffondeva la voce, gente nuova si presentava e la famiglia si
allargava senza nessun controllo reale su dove si stava andando a parare.
Ma non c’erano troppe domande da farsi: gli affari poi andavano a gonfie
vele, e non avevo più bisogno di rivolgerci ai grossisti: Matteo aveva
reclutato un gruppo di ragazzetti che vendevano la roba al dettaglio. In
media si facevano almeno una decina di milioni a serata. Ma la situazione
si avvitava su se stessa a spirale. Non poteva andare avanti a lungo.



UN GIORNO POTRAI DIRE: SI È VERO, C’ERO ANCH’IO
Quella notte, per la prima volta dopo molti anni, dormii serenamente e mi
svegliai di ottimo umore e con una grande voglia di iniziare la giornata.
Scesi in cucina alle otto e preparai la colazione per le ragazze, poi presi un
vassoio e salii le scale per portarlo in camera. Senza svegliarle, appoggiai il
vassoio sul tavolo e aprii le imposte. Poi mi sedetti e le guardai mentre
aprivano gli occhi.
Fu Denise la prima a svegliarsi:
– Chicco sei un sogno!
Mi sedetti sul letto, al suo fianco, e la baciai sulla fronte. Poi mi alzai e
andai a chiamare Luca. Facemmo colazione tutti insieme, le due ragazze
ancora sotto le coperte e noi due seduti ai piedi del letto. Non parlammo né
di passato né di futuro, ma solo di come avremmo impegnato quella
giornata che era cominciata in maniera così bella. Il vento che continuava a
soffiare forte da ovest si era portato via le nuvole e aveva lascito un cielo
azzurro intenso che avevo visto di rado.
– Dai vestitevi che oggi vi portiamo a Santa Monica – disse Luca.
Santa Monica è una spiaggia sul lato meridionale dell’isola, ed è ritenuta da
tutti la più bella spiaggia di Capo Verde. Quando soffia il vento da ovest il
mare della baia rimane uno specchio turchese perfettamente immobile rotto
dal nero delle rocce vulcaniche, ed è uno spettacolo bellissimo. In origine si
chiamava Praia de Curralinho, ma poi gli hanno cambiato nome perché
sembrava l’omonima spiaggia della California. Oltre ad essere lunga più di
venti chilometri, è anche parecchio distante dal villaggio turistico e dagli
alberghi, che si trovano tutti nei pressi di Sal Rei, sul lato nord-ovest
dell’isola, e non c’è neppure una vera e propria strada per arrivarci. Per
queste ragioni è rimasta relativamente incontaminata. Anche se ultimamente
si vocifera che nella zona verrà costruito un aeroporto internazionale e una
serie di villaggi turistici.
Io mi misi alla guida del pick-up, Denise si sedette accanto a me mentre
Luca e Alessia salirono dietro. Denise estrasse dallo zaino una cassetta e la
inserì nell’autoradio. Aprile 1993, Andrea Giuditta e Franchino. Mentre la
musica partiva, Denise mi accarezzava la nuca in silenzio. Avevamo lasciato
il deserto alle nostre spalle, la strada si inerpicava su per le montagne, e
tutto era perfetto. Poteva essere un buon momento per morire.
Arrivammo alla spiaggia e parcheggiammo il furgone sotto una palma. Luca
e Alessia scesero di fretta e iniziarono a correre verso il mare, spogliandosi
durante la corsa e gettando i vestiti alle loro spalle. Sembravano felici. Luca
non l’avevo mai visto correre o affrettarsi a fare una cosa. Prendeva sempre
tutto con una lentezza quasi disarmante, come se non gliene importasse
niente realmente di quello che faceva.
Io e Denise restammo ad aspettare la fine della cassetta. “Qui possiamo fare
tutto…” furono le ultime parole di Franchino, mentre la cassa di 20Hz
faceva pausa per prepararsi a colpire con maggior violenza. Scendemmo
anche noi dal furgone. Il cielo aveva un colore blu intenso meraviglioso, e il
mare lo rifletteva. Luca e Alessia nuotavano e scherzavano nella baia
d’acqua chiarissima. Io mi lasciai cadere sulla sabbia. Denise si sedette
accanto a me. Senza parlare, con lo sguardo rivolto al mare, iniziò ad
accarezzarmi i capelli. Mi sentivo bene. Per la prima volta dopo tanti anni,
in pace con me stesso. Ero tornato al punto in cui tutto si era interrotto.
Alessia scherzava con Luca e lo abbracciava, come prima aveva fatto con
Niccolò. Denise si distese accanto a me. Senza parlare, mentre io
continuavo a guardare verso il cielo, continuava ad accarezzarmi e a
guardarmi. Mi desiderava, come mi aveva desiderato anni prima. Come se
fossi una cosa preziosa per lei. Era un buon momento per morire.


INSOMNIA, IL PAESE DEI BALOCCHI
E in effetti le cose iniziavano a farsi ben più complicate. L’Insomnia
richiamava un sacco di persone, giravano un sacco di soldi e la gente
iniziava a guardarsi le spalle. Il sabato sera c’era fissa una pattuglia dei
carabinieri all’uscita della superstrada, ed era regolare incappare nei
controlli. Certo, bastava farsi furbi, portare la roba in mattinata e
nasconderla da qualche parte nel parcheggio, ad esempio all’interno dei
tubi di metallo che reggevano le catene. E noi tre, in ogni caso, avevamo
l’aspetto di persone perbene e non destavamo grossi sospetti. E poi i
criminali di professione avevano iniziato a fiutare l’affare e si erano inseriti
nei giri di produzione e smercio delle cale. Era arrivato il momento della
cautela.
Franchino era un parrucchiere di Campo nell’Elba molto eccentrico che
prendeva il microfono e raccontava le favole che gli passavano per la testa;
era diventato un vocalist di professione, ed emetteva regolare fattura. Noi
eravamo tre amici, uno dei quali studente di chimica, che preparavano un
po’ di MDMA per gli amici, eravamo diventati rifornitori di una rete di
spacciatori.
La dimensione iniziale, il fare qualcosa per la famiglia, era completamente
perduta. Anzi, era la famiglia stessa ad essersi disgregata.
A febbraio del 1996, arrestarono Diego, il cameriere della rosticceria di
piazza Sant’Ambrogio, che lavorava per noi. Lo fermarono all’Osmannoro
mentre andava al Torquemada con un carico di un centinaio di paste.
Diego era un bravo ragazzo ma non era affidabile, poteva combinare casini
in qualsiasi momento. Il suo arresto ci stava tutto. Diego fu coraggioso,
comunque, e non fece i nostri nomi. La polizia trovò nel suo cellulare il
numero di Niccolò, che teneva i contatti con lui, e lo chiamarono per un
interrogatorio. Anche se dubitavo di lui, Niccolò fu bravissimo a sostenere
che Diego era solo un conoscente, e che lui e Alessia frequentavano
abitualmente la sua rosticceria, il che in effetti era vero. La cosa morì li,
Diego si prese due anni con la condizionale e si chiamò fuori, ma era un
campanello d’allarme.
Alla fine della stagione 1995/96, per me era arrivato il momento di
smettere. Alla serata di chiusura del Torquemada avevo beccato una
ragazzina di quindici anni, Giulia. Fasano suonava “The nightfly”, e
durante la pausa della cassa ci eravamo abbracciati, come spesso capitava
e come anche tutti gli altri facevano. Era un momento molto suggestivo, la
musica si fermava e tutta la pista si scioglieva in un immenso abbraccio.
Non so come ma io quella volta ero scoppiato a piangere come una vite
tagliata. Lei fece quello che avrebbe fatto chiunque al suo posto, mi portò
fuori, mi fece sedere sul dondolo e provò a consolarmi. A un certo punto
disse:
– Cosa c’è da piangere, la serata è meravigliosa, sei uno dei ragazzi più
desiderati del Torquemada, hai tutto!
Alla fine era anche una frase piuttosto neutrale. Ma mi parve che avesse
tolto il velo che stava davanti allo specchio e mi avesse mostrato quello che
veramente ero diventato. Non ero più un ragazzo solitario e scartato che
aveva trovato una nuova famiglia di persone come lui. Ero uno dei ragazzi
più desiderati, ero un figo, tutti mi invidiavano, non mi mancava nulla. Non
ci vidi più dalla rabbia, urlai:
– Ma che cazzo vuoi, cosa ne sai di me? – e le mollai uno schiaffo.
La roba che avevo preso quella sera era sempre la nostra, ma era la prima
volta che mi prendeva male in questa maniera. Non avevo mai alzato le
mani su una ragazza. Per me era arrivato il momento di chiudere.
Ma si sa, l’avidità è una spirale che si autoalimenta, e si cominciava anche
a pensare a cosa avremmo fatto senza tutti i soldi di cui potevamo disporre.
Niente più cene, vestiti, weekend a Londra e a Berlino. Matteo, che aveva
lasciato il cuore a Tirrenia, diceva che non se la sentiva di lasciare a piedi
tutti i ragazzi. Niccolò, che evidentemente aveva ricevuto in eredità dalla
convocazione in commissariato una sorta di delirio di onnipotenza,
continuava a dire che non c’era nulla da temere, e aveva anche smesso di
preoccuparsi di non dare nell’occhio coi soldi. E in questo Alessia, che
iniziava a ricevere da lui regali di notevole importanza, gli dava man forte.
Io avevo provato a parlarle, ma lei era completamente catturata dallo stile
di vita che avevano intrapreso: cene, viaggi, regali. E temeva che tornare a
una vita normale avrebbe finito per rovinare anche la sua storia con
Niccolò. Alla fine poteva anche avere ragione: sono sempre stato dell’idea
che lo star bene con una persona dipende in larga parte dal tipo di cose che
si condividono e si fanno insieme. Passando ad altro c’è sempre il rischio
di ritrovarsi accanto uno sconosciuto.



NOVANTAQUATTRO… È INIZIATO BENINO, EH?
Quei giorni passarono rapidamente. La sera di capodanno andammo nel
deserto a fare una grigliata di pesce. Davanti al fuoco Luca e Alessia
parlavano, si raccontavano, e saltarono fuori delle cose di Luca e della sua
storia con Camilla di cui neppure io avevo mai saputo.
Io e Denise invece rimanevamo in silenzio, ci tenevamo per mano e ci
sorridevamo. Non servivano molte parole. Non c’era molto da dire. C’erano
soltanto delle sensazioni da assaporare di nuovo, da gustare e centellinare
per poter fissarle bene prima che di nuovo se ne sparissero per altri cinque
anni o forse più. Non avevamo orologi, e ci rendemmo conto che la
mezzanotte era arrivata vedendo all’orizzonte i fuochi artificiali del
villaggio turistico. Allora Luca stappò una bottiglia di spumante, ne bevve
uno sorso direttamente dalla bottiglia e la passò ad Alessia. Alessia bevve, si
alzò e passò la bottiglia a Denise. Poi prese Luca per mano, e si
incamminarono tra le dune. Io rimasi seduto, Denise accanto a me.
– Sai cosa c’è di buffo? Quando uno è con un’altra persona di solito si sente
obbligato a intrattenere una conversazione, a dire frasi di circostanza. Con
te invece anche se rimango in silenzio mi sento perfettamente a mio agio.
Denise annuì, e mi accarezzò una guancia.
– Chicco cosa vuoi che ci sia rimasto da dire? Alessia, lei è una che ha
bisogno di parlare. E a me fa anche piacere stare ad ascoltarla e cercare,
per quello che posso di aiutarla. Ma io la voglia di parlare l’ho persa da un
pezzo.
– Anch’io. Certe volte quando vengo in questo deserto vorrei farmi
inghiottire dalla sabbia. Senti com’è fredda.
Le presi l’avambraccio e lo ricoprii di sabbia.
– Senti il gelo che ti penetra nelle ossa. Sembra di perdere completamente la
sensibilità dell’arto.
Denise, con l’altra mano, prese il mio altro braccio e lo infilò sotto la
sabbia.
– Vorrei restare così per sempre – disse, quasi affondando le sue unghie
nella carne del mio avambraccio.
– Non credo sia possibile, sai. Quello che c’è di speciale in questi momenti
è che capitano così di rado. Altrimenti non sarebbero così sorprendenti.
Denise si avvicinò e chiudendo gli occhi mi dette un bacio sulle labbra. Io
restituii il bacio accarezzandole la nuca. I fuochi di capodanno frattanto
erano finiti, e l’isola sprofondava di nuovo nella notte.
Alessia e Denise ripartirono il 3 gennaio, con la promessa di tornare a
trovarci in estate. Quella parentesi di vita mi lasciò uno strano sapore in
bocca. Da un lato, erano stati momenti molto belli, che mi avevano non solo
fatto riconciliare col passato, ma mi avevano anche restituito sensazioni che
non provavo più da anni. D’altra parte, era facile rendersi conto che tutto si
era giocato sulla falsariga dell’incontro dopo anni di lontananza, e che alle
prossime visite le cose avrebbero potuto andare diversamente. Dopotutto,
avevamo parlato unicamente di passato, di cose fatte e dette, di persone che
ci avevano lasciato qualcosa. Il presente era apparso unicamente come
conseguenza di quello che era stato, e del futuro non se n’era proprio fatta
menzione.
Il futuro del resto era del tutto fuori dai miei orizzonti. Come avevo detto ad
Alessia, non avevo nessun tipo di prospettiva, se non quella di condurre una
vita quantomeno non sgradevole o disagiata in attesa di morire. Non mi
aspettavo nulla dal futuro: la mia esistenza avrebbe potuto condensarsi nei
tre anni dell’Imperiale, anni in cui avevo provato tutto, l’amore, l’odio, la
forza, la comunione, la famiglia. Non restava altro, in cosa avrei potuto
sperare? Avevo già avuto tutto. Il resto della mia vita avrebbe
semplicemente fatto massa.
Con Luca parlammo a lungo e molte volte di Alessia. Avevano fatto l’amore
per capodanno, e si scrivevano lunghe lettere. Luca sarebbe andato a
trovarla in Italia in primavera. Ero contento che Luca avesse capito che
persona speciale lei fosse. Ero contento che Luca riempisse il vuoto che la
morte di Niccolò aveva portato nel cuore di Alessia. Ero contento che lei
portasse a Luca un po’ di vita, che lo facesse sentire importante come mai
nessuno l’aveva fatto sentire. Luca era una delle persone più sole che avessi
mai conosciuto. Per certi versi molto peggio di me e Niccolò. Ci sguazzava,
nella sua solitudine. Si compiaceva di essere irrilevante per il resto del
mondo. Godeva nel dire che quando aveva deciso di trasferirsi a Boavista, a
seguito di una storia finita male, neppure i suoi genitori avessero protestato
o cercato di farlo desistere. Luca ci si era sempre trovato a suo agio, nella
sua malinconia. Noi ci avevamo provato ad aiutarlo, quando eravamo
ancora in condizioni, ma senza successo. Forse bastava semplicemente una
persona che lo facesse sentire importante.
Ad ogni modo, col nuovo anno, Luca mi sembrava notevolmente cambiato,
in positivo, e le cose per lui sarebbero probabilmente andate a migliorare.
Diverse volte Luca mi chiese di Denise, di cosa avevo intenzione di fare con
lei, forse con l’idea, un giorno, di invitare entrambe le ragazze a trasferirsi a
Boavista. Io non avevo intenzione di fare proprio nulla: rivedere Denise,
sentirmi di nuovo desiderato da lei, era stato molto bello, e mi aveva
richiamato alla mente bellissime sensazioni dal passato, ma semplicemente
non c’era futuro. La nostra storia era legata a doppio filo all’esperienza
dell’MDMA e al di là della sostanza chimica sarebbe rimasto ben poco: una
certa dose di attrazione fisica e un po’ di nostalgia per i momenti passati
insieme. Anzi, passare troppo tempo insieme avrebbe potuto corrompere e
rovinare tutto il bel ricordo di quei giorni.
Io, comunque, continuavo la vita di sempre, se non altro soddisfatto
nell’essermi riconciliato con Alessia e, in una certa misura, col mio passato.
Certo, non vedevo né tantomeno avevo alcuna via d’uscita, ma per lo meno
potevo dire di aver sistemato tutte le cose, e di essere pronto per partire.


VIVERE PER VIVERE
Era un lunedì quando mi squillò il telefono alle cinque di mattina. Ero
rimasto a dormire a Calenzano a casa di Martina, una tipa che avevo
conosciuto quel sabato al Deskò. Era stata una buona domenica, ci
eravamo fatti un cartone, avevamo fatto l’amore e ci eravamo coccolati un
sacco. Quando vidi sul display il nome di Alessia, immaginai che avesse
litigato con Niccolò. Non capitava di frequente, ma le rare volte si dicevano
delle cattiverie notevoli, e finiva che entrambi avevano bisogno del mio
conforto. Ma dall’altro capo del telefono sentivo solo voci concitate e
rumori di oggetti che cadevano. Poi Alessia che piangeva disperata e
chiamava Niccolò. Mi sono sentito gelare. La prima cosa che ho fatto è
avvertire Matteo. Ai primi tempi della nostra attività Niccolò aveva
escogitato un sistema di codici d’emergenza. “Le scatole sono pronte per il
trasloco” era il segnale per trovarsi alla cassetta di sicurezza a prelevare il
denaro. Poi Niccolò, per scrupolo. Nessuna risposta. Doveva essere con
Alessia, dovevano averlo preso.
Mi infilai i vestiti, detti un ultimo bacio a Martina che ancora dormiva e
partii in moto verso piazza Dalmazia. Matteo nell’attesa si era fermato in
pasticceria e aveva preso due cornetti. Sembrava tranquillo, e nemmeno
sapere della telefonata interrotta di Alessia sembrò colpirlo più di tanto. Io
invece ero teso come una corda di violino, i nodi erano venuti al pettine e
sentivo che era arrivato il momento di pagare il conto.
Riempimmo gli zaini con le mazzette di soldi che c’erano in cassetta. Visti
così non sembravano neanche tanti soldi. Il registro diceva che c’erano
trecentoottantacinque milioni. Non perdemmo tempo a contarli e ci
incamminammo di buon passo verso la stazione di Rifredi. Una mattina
d’estate, due ragazzi con gli zaini in spalla: potevamo essere due studenti
che andavano al mare. E invece non eravamo studenti e non andavamo al
mare, e anzi non era chiaro dove saremmo andati a finire e cosa avremmo
fatto del contenuto degli zainetti.
Arrivati alla stazione, venne il momento di separarci, e fu allora che capii
che da quel momento in poi avrei dovuto iniziare a fare i conti con la
solitudine e a camminare sulle mie gambe. Tutta la sicurezza che avevo
costruito i quegli anni, che mi aveva fatto reagire con prontezza a quella
situazione di emergenza, si sciolse come neve al sole, e mi sentii indifeso
come un bambino. Matteo mi abbracciò con forza e mi sorrise.
– Ci rivedremo Jacopo, sono sicuro. Non dimenticartelo, ti proteggerò
sempre.
Poi salì sul treno per Viareggio. A Genova avevamo degli amici che
avrebbero potuto aiutarlo, tenerlo nascosto per un po’ e poi cercare di
fargli passare la frontiera. Il treno successivo portava a Piombino. Anche lì
avevamo degli amici che avrebbero potuto aiutarmi.
Quando arrivai andai subito al porto turistico, dove Tommaso lavorava
come perito nautico nell’agenzia del padre. Tommaso era un bravo
ragazzo, gli vendevamo roba che poi lui spacciava agli amici più fidati e
non aveva mai creato problemi. Quando capitava, aveva anche aiutato
nell’organizzare il “The West”. Di lui mi potevo fidare.
Il “The West” era un fuori orario organizzato da un ragazzo che si
chiamava Raulo Giovannoni. Aveva iniziato con cadenza irregolare nel
1994, e nel 1995 capitava circa una volta al mese, il più delle volte al
centro fiere di Venturina. Poi il 16 giugno del 1996 un ragazzo di 18 anni
sfortunatamente morì per un collasso. Aveva preso un sacco di roba,
mischiata con chissà cosa, ed era finito disidratato. Anche quello fu un
segnale che le cose stavano cambiando, anche per il “The West”, che venne
ribattezzato “Riserva Indiana”: Raulo iniziò a organizzarlo in posti più
remoti, a contatto con la natura, quasi come se volessimo ritirarci ed essere
lasciati in pace. Una volta addirittura in un pezzo di bosco nelle montagne
del Casentino. Molto suggestivo, comunque.
Tommaso, essendo figlio di un conosciuto e rispettato agente nautico,
funzionava da tramite col comune e le altre autorità quando il fuori orario
ancora si teneva a Venturina. Aveva notevoli qualità diplomatiche, sapeva
gestire i rapporti con le persone ed era anche bravo a mentire. Di lui mi
potevo fidare.
Quando entrai nel suo ufficio spalancò gli occhi:
– Jacopo che cazzo ci fai qua a quest’ora?
– Ho bisogno del tuo aiuto.
– Che t’è successo, sei pallido come un cencio!
– Andiamo di là per favore.
Ci spostammo nell’ufficio sul retro. Ci sedemmo, aprii lo zaino e rovesciai
parte del contenuto sulla scrivania. Tommaso strabuzzò gli occhi.
– Ma sei scemo? Che cazzo avete combinato?
– Non lo so esattamente, ma devono aver preso Niccolò. Io e Matteo
abbiamo preso i soldi che ci erano rimasti e siamo scappati via. Adesso
non so dove andare, mi serve il tuo aiuto.
– Non so… posso nasconderti per qualche giorno in campagna dai miei…
– E poi cosa faccio? Verranno a cercarmi… No, devo andarmene… Se
prendessi un traghetto per la Corsica?
– Ho un’idea: hai qualcuno da cui puoi andare in qualche posto che si
raggiunge via mare? Non so, tipo a Ibiza…
– Ho un amico che si è trasferito a Capo Verde.
– E dove sarebbe?
– Ma che ne so, sono delle isole da qualche parte in Africa…
Antonio prese un atlante.
– Eccole qua. A ovest del Senegal. Saranno un quattromila chilometri da
qua, un po’ lontano, ma in una ventina di giorni ce la puoi fare. Senti la
mia idea. Io ti vendo una barca di quelle che di solito noleggiamo. Però
non te la vendo sul serio, faccio finta di noleggiartela, diciamo per un
mese, poi tu ovviamente non me la riporti. A mio padre dico che l’hai
presa per arrivare a fare un giro alle Eolie. Dopo un mese io denuncio il
furto, incassiamo i soldi dell’assicurazione e siamo tutti contenti. Non
credo che verranno mai a ricercarti a Capo Verde. Per noleggiartela ho
bisogno di un documento falso, ce l’hai?
– Certo che ce l’ho. Ma questa di scappare in barca a vela mi sembra una
stronzata. Come faccio con la guardia costiera? Come faccio ad
attraccare?
– La costiera non è un problema, fino alle Canarie sono tutte rotte molto
battute di questa stagione, non dovresti dare nell’occhio. Una volta
l’estate scorsa ci ho portato un carico di roba a Ibiza così.
– Roba nostra?
– E certo, e di chi sennò? Te l’ho sempre detto, la roba vostra l’ho sempre
considerata la migliore.
Sorrisi. Bello avere degli amici.
– Fai la costa nord della Corsica, poi le Baleari e di lì punti su Gibilterra.
Poi scendi verso le Canarie e poi punti a sud. Nell’ultimo tratto non
dovresti trovare nessuno.
– E dove attracco? Come faccio a rifornirmi?
– Non lo fai, ti porti tutto quello che ti serve da qua. La notte getti l’ancora
in qualche baia dove ci sono anche altre barche. Limiti al minimo l’uso
del motore e della corrente elettrica. E al limite se proprio ti serve
qualcosa puoi chiedere a qualche altro navigatore.
– Non so, spero che tutto vada bene ma mi sembra impossibile. Tanto
comunque non ho molte alternative. Non posso certo restare qui. Senti
Antonio cosa ti do per tutto questo?
– Non lo so, così mi imbarazzi... diciamo il prezzo del noleggio e un
regalino per il rischio che corro con questa cosa?
– Certo. Ti vanno cinquanta milioni? Il resto mi dovrebbe bastare per stare
a Capo Verde. Che barca è?
– Grand Soleil 343.
– Cazzo, pure una barca da commendatore!
Antonio si alzò e sorrise.
– Mi vanno sì. Ti faccio preparare la barca e ti accompagno alla Coop a
fare la spesa, ok?
– Grazie Antonio. Grazie.
Mi alzai anch’io e lo abbracciai. Bello avere degli amici.
Al supermercato comprammo una cinquantina di bottiglie d’acqua, dieci
chili di spaghetti, tonno in scatola, salsa di pomodoro, un bel pezzo di
parmigiano e un po’ di abiti da portarmi dietro. Poi passammo in farmacia
a prendere un bel po’ di vitamine. Non si sa mai, a non poter mangiare roba
fresca.
Scrissi una lettera a Luca in cui preannunciavo il mio arrivo, e chiesi ad
Antonio il favore di spedirla il prima possibile, magari non da Piombino.
Poi Antonio mi aiutò a caricare la barca, mi fece vedere dove stavano le
cose e infine mi salpò gli ormeggi.
Fu mentre lasciavo il porto e aprivo le vele che mi voltai indietro. Antonio
era sul molo e mi guardava. Fu allora che mi resi conto di cosa stavo
facendo. Stavo scappando, e non mi ero nemmeno chiesto se era quello che
volevo. Come un bambino che ha combinato un guaio e cerca di
nasconderlo ai genitori. Avrei lasciato per sempre il mio paese, le persone
che mi volevano bene e che forse avrebbero avuto bisogno di me. Codardo.


THE WEST IS THE BEST
Una cosa che mi era rimasta da sistemare c’era, e si presentò a Capo Verde
la settimana dopo Pasqua. Chiamarono l’albergo dalla dogana
dell’aeroporto di Sal perché era sbarcato un tipo senza il visto che diceva di
aver prenotato una camera da noi. Il tipo, ovviamente, era Mirko, il quale si
era guardato bene dal prenotare la camera e avvisarci del suo arrivo.
Per telefono confermai la sua prenotazione, e mi scusai con la polizia per
aver dimenticato di trasmettere il suo nominativo. Poi me lo feci passare e
gli suggerii di allungare una banconota da venti euro al funzionario della
dogana, per il disturbo. Lo imbarcarono sul primo volo per Boavista, e mi
feci io carico di andare a prelevarlo in aeroporto. Poveretto, pensavo mentre
guidavo il furgone attraverso le palme della strada vecchia, lui non
c’entrava niente ed è rimasto fregato. Si è solo innamorato della persona
sbagliata. Una brava persona con la vita rovinata, riflettevo, e mi sentivo
quasi in dovere di sistemare anche lui.
Mirko scese dall’aereo e incedendo sulla pista con aria sicura si guardava
attorno. Portava un completo di lino color panna e una camicia celeste. Tra
le mani stringeva una borsa di cuoio. Pareva un agente dei servizi segreti in
missione in un paese tropicale. Appena mi vide mi si fece avanti con passo
deciso, mi strinse la mano con vigore e mi abbracciò calorosamente. Io non
sono mai stato abituato a queste manifestazioni di affetto, almeno non
quando ero pulito, e reagii in maniera goffa. Forse lui si accorse di aver
esagerato, e cercò di correggere il tiro con una prima frase di circostanza:
– Come andiamo, vecchio mio?
Vecchio mio, pensavo? D’accordo, non lo conoscevo abbastanza, ma mi
pareva che tutta questa socialità fosse artificiale e affettata. Durante il
tragitto verso l’albergo non tacque un minuto. Ma non parlava della sua
situazione e di quello che gli era successo, quello avrei potuto capirlo al
limite. Frasi di circostanza sull’isola e sulla vacanza che lo aspettava.
Questo pover’uomo dev’essere alla disperazione per comportarsi così.
Evidentemente eravamo la sua ultima speranza. Alla fine trovai la forza di
interromperlo e gli chiesi quanto aveva in mente di trattenersi.
– Non lo so, il volo di ritorno l’ho fissato tra due settimane, ma il biglietto è
aperto.
Ecco, appunto.
Vista la situazione e l’incertezza sulla sua permanenza, lo sistemai in una
stanza al pianterreno che usiamo come camera di emergenza nel caso di
errori nelle prenotazioni o partenze ritardate. Mentre Mirko disfaceva i
bagagli, raggiunsi Luca in spiaggia e gli spiegai la situazione. Lui non
sembrava troppo preoccupato della cosa:
– Al limite ci darà una mano in albergo…
– E quando Alessia verrà a trovarti?
– Beh cavoli suoi, ormai sono separati, mica è più suo marito.
Luca era sorprendentemente lineare nel pensiero, alle volte ragionava come
se le persone non avessero emozioni. D’accordo, da un punto di vista
puramente razionale poteva averci anche ragione, ma come poteva non
vedere che la situazione sarebbe stata tesa? Meglio così comunque, potevo
almeno risparmiarmi il senso di colpa per aver attirato questo ospite
inatteso.
La situazione peraltro era davvero disperata, molto peggio di come la
immaginavo. A vederlo, Mirko sembrava una persona normale,
moderatamente sicuro di sé e con la testa sulle spalle. In realtà era molto più
fragile di quanto pensassi, e, quel che è peggio, si incolpava di tutto quello
che era successo. Probabilmente perché la loro storia era nata in questa
maniera, con lui che la proteggeva e si curava di lei, non riusciva a spiegarsi
e ad accettare che c’erano fantasmi da cui lui non avrebbe potuto
proteggerla nemmeno se ne avesse avuta l’occasione.
Alessia per lui era tutto, curarsi di lei era la sua fonte di vita. Adesso capivo
come doveva sentirsi male del fatto che lei non condividesse con lui i suoi
problemi, che non le avesse raccontato la verità sul suo passato e su
Niccolò. Come doveva averlo ferito il fatto che lei non avesse accettato le
sue cure, e avesse rinunciato alle sue attenzioni per tornare da sola.
Poveretto, pensavo, non riesco a immaginare forma di rifiuto peggiore da
parte della persona che si ama.
Dopo la separazione, la sua vita era crollata, aveva smesso di lavorare e
passava le giornate trascinandosi tra il letto e il divano. Quello che era
venuto a fare da noi era chiaro: voleva provare a ripartire. L’avevo visto
chiaramente la prima volta che l’avevo incontrato che ci invidiava,
invidiava la nostra vita che doveva apparirgli libera e avventurosa.
Avrei voluto spiegarglielo col cuore in mano che non c’era nulla da
invidiare, che io ero semplicemente scappato dalla polizia e Luca dai suoi
genitori, e che, chi più chi meno, eravamo semplicemente qui ad aspettare
di morire. Ma in fondo non mi sembrava giusto, perché lui era venuto a noi
con la speranza di ripartire, e di negargli anche questa speranza non me la
sentivo. Ma da noi non poteva rimanere, Alessia sarebbe tornata e la
situazione era potenzialmente esplosiva. Alessia aveva trovato in Luca
quello che non aveva voluto da Mirko, e alla fine era stata solo una
questione di tempi e di fortuna. Luca si meritava Alessia, e sapevo che
prima o poi lei si sarebbe trasferita a Boavista. Se Mirko fosse rimasto a
lavorare in albergo o anche da qualche altra parte nell’isola, non avrebbe
mai potuto sopportare una situazione del genere. E anche se avesse fatto
mostra di farlo non avrebbe avuto alcuna possibilità di ripartire e rifarsi una
vita.
Dopo tre giorni che era arrivato ed era rimasto appiccicato a me e Luca,
come se si aspettasse che accanto a noi qualcosa sarebbe successo, decisi
che l’avrei portato via. Ne parlai con Luca, e convenimmo che non poteva
restare da noi. Rimandarlo in Italia sarebbe stata un’inutile crudeltà, però.
Mi sarei occupato io di lui. Anche se quello che avevo in mente voleva dire
stare via per almeno un mese.
– Tu sei fuori di testa! – mi disse Luca quando gli spiegai la mia idea.
Credo di no. Secondo me sarebbe stato proprio quello che gli ci voleva. E
poi al limite sarebbe sempre stato in tempo a tornare in Italia.
Il giorno dopo averne parlato con Luca, dissi a Mirko che l’avrei portato a
fare un giro delle isole in barca, e di portarsi tutte le sue cose che saremmo
stati via diversi giorni. Mirko sembrava elettrizzato all’idea di quel viaggio,
e mi chiese anche di insegnargli a portare la barca. La mattina dopo
eravamo pronti per partire.
Una volta lasciato il porto, iniziai a spiegare a Mirko le procedure per
portare la barca, che senz’altro avrebbe fatto comodo alternarsi. Avevamo
quasi duemila chilometri di navigazione davanti a noi. Brasile. L’avrei
portato lì, dove ero sicuro che una persona che per me era stata importante
avrebbe cambiato radicalmente la sua vita.



ESCI DAL TUNNEL, ENTRA NEL VORTICE
Niccolò era rimasto in coma per quarantun giorni prima di morire. Il
proiettile gli aveva forato la carotide.
Io lo sapevo che li avevamo alle calcagna e volevano metterci fuori dal
gioco. Ma non cercavano Niccolò, cercavano me. Se ci penso erano un po’
di settimane che vedevo troppa gente passare nella strada prospiciente la
colonica. Dovevano essersi appostati alla fonte, aspettando che rientrassi.
Invece io non rientrai quella notte, rientrarono Niccolò e Alessia. Avevano
litigato tutta la sera, poi avevano fatto pace e andavano alla colonica per
fare l’amore.
Successe dopo che la macchina era stata parcheggiata, mentre Niccolò
armeggiava al portone per aprire tutte le serrature mentre Alessia
raccoglieva le sue cose dal bagagliaio dell’auto. Due tipi sbucarono da
dietro il pozzo, un colpo a bruciapelo e poi giù di corsa per il campo di
ulivi. Quando la polizia arrivò trovò tutto quello che era stata la nostra vita
in quegli anni.



IL PICCOLO BRUTTO ANATROCCOLO DIVENTÒ BIANCO E
SPLENDENTE COME UN CIGNO
Puntammo verso Fogo, e quando il vulcano iniziò ad apparire all'orizzonte,
Mirko prese a emozionarsi e a chiedermi dell'isola. Fu a quel punto che
decisi di dirgli tutta la verità, incluso il posto dove eravamo veramente
diretti.
– Mirko perché hai deciso di venire da noi?
– Ma come, non te lo immagini? Mi sembra il posto migliore per ripartire.
Anche voi siete venuti qui per questo, no? Io voglio una vita diversa da
quella che ho avuto finora. Sono sempre stato inquadrato, regolare, prima
concentrato sullo studio, poi sul lavoro e la famiglia. Io voglio una vita
interessante, avventurosa, libera!
– Mirko la mia vita è tutto fuorché libera. Io sono scappato in questo posto
per non andare in galera. Sei anni, produzione e spaccio di stupefacenti.
– Non l’avevo immaginato...
– Sono bravo, eh, a fingere? Ormai sono allenato. Tutti gli italiani che
vengono al nostro albergo ce lo chiedono come mai siamo venuti a vivere
a Capo Verde. Ci ho fatto l’abitudine a raccontare balle. Questa della vita
libera è la più grossa di tutte. Non posso nemmeno muovermi
tranquillamente, altro che libera!
– Scusa, non sapevo... Mi dispiace.
– Non preoccuparti. Vedi Mirko, ci sono tante cose che devo dirti. Ma la
prima è che non stiamo andando a fare un giro delle isole. Ti porto in
Brasile. Lì c’è un mio amico, si occuperà lui di te, ti darà una vita
avventurosa se lo vorrai, o una semplice vacanza se poi deciderai di
tornare al tuo mondo. Sono convinto che in ogni caso ti darà tanto. Lui è
stato una persona tanto importante per me, quasi un padre nella vita che
ho attraversato prima di venire su queste isole. Non puoi restare da noi,
Mirko. Luca e Alessia si stanno innamorando, è probabile che se le cose
vanno bene lei verrà a vivere a Boavista. Non possiamo stargli appresso,
dobbiamo lasciargli spazio, se la meritano entrambi un'altra chance.
Mirko sbarrò gli occhi e non rispose. Io continuai:
– Lo so, è difficile da accettare, ma dovete entrambi rifarvi una vita. Ma non
nel solito posto, sarebbe impossibile, di questo devi rendertene conto.
– Sicché mi volete scaricare?
– No, voglio che Luca e Alessia possano stare bene insieme e costruire
qualcosa. Voglio bene a entrambi, e si meritano questa possibilità. Me ne
andrò anch'io comunque, non ha senso che rimanga a Boavista una volta
che lei si sarà trasferita.
– E tu resterai in Brasile con me?
– No, la persona da cui ti porto è legata al mio passato, non avrebbe alcun
senso... Vedi Mirko, ho la sensazione che la vita mi stia inseguendo, non
posso continuare a scappare.
Il viaggio fu relativamente tranquillo. Dopo che Mirko ebbe imparato i
rudimenti della navigazione, portammo la barca alternandoci, e bastarono
dieci giorni per arrivare in vista della costa. Parlammo molto di Alessia
durante il viaggio, e per la prima volta parlai con qualcuno di quanto le
volevo bene e di quanto lei fosse preziosa per me. La prospettiva di non
poterla avere accanto mi gettava nell’angoscia, ma questo era quello di cui
lei aveva bisogno, me l’aveva detto chiaramente, e per lei io me ne sarei
andato. Mirko in effetti non si era innamorato di lei, ma dell’immagine che
lei cercava di proiettare. Ma sono convinto che se l'avesse davvero
conosciuta se ne sarebbe innamorato ancora di più.
A quanto mi aveva detto Denise, Franchino si era ritirato dalla scena un
anno fa, a seguito di un infarto, e si era trasferito da sua figlia in Brasile,
dove aveva aperto una piccola attività alberghiera in un paesino vicino a
Fortaleza. Non fu difficile trovarlo. Era a pescare sul molo, vestito con una
camicia Hawaiana e un enorme cappello di paglia.
– Francesco – dissi con la voce rotta dall’emozione.
Lui voltò la testa. Per un attimo mi squadrò, non era facile riconoscermi
dopo cinque anni, abbronzato dal sole dei tropici e con la barba di una
settimana. Poi un sorriso si dipinse sul suo volto, si alzò in piedi e venne
verso di me per abbracciarmi:
– Jacopo non immaginavo che tu saresti più tornato a trovarmi!
– Credevi che mi fossi dimenticato di te?
– Che fai qua?
– Ti ho portato un mio amico che ha bisogno del tuo consiglio. Come stai?
Ho saputo che non sei stato bene.
– Ho dovuto rallentare e son venuto qui a riposare, vicino a mia figlia. Ora è
diventata grande, abbiamo aperto questo albergo, e si prende cura di me.
Anche a Franchino la famiglia Imperiale non serviva più, aveva ritrovato la
sua, di famiglia.
– Lui è Mirko. Volevo che ti conoscesse. Vorrei che parlassi un po’ con lui,
credo che abbia bisogno del tuo aiuto.
– Ma come avete fatto a trovarmi? Come siete arrivati?
– Mi ha detto Denise che eri qua. Io vivevo a Capo Verde. Siamo venuti in
barca a vela.
Franchino rise.
– Proprio come ai vecchi tempi… come quei due ragazzi che venivano
all’Imperiale in motorino dall’isola d’Elba, te li ricordi?
– Certo che me li ricordo, Marcone e Marchino!
– Dai venite da noi, vi faccio preparare un caffè da mia figlia.
La figlia di Franchino si chiamava Luna, ed era cresciuta con la madre in
Brasile. Negli anni dell’Imperiale un paio di volte era venuta in Italia a
trovare il padre, e lui ovviamente se l’era portata in consolle e l’aveva
presentata a tutta la famiglia. Ai tempi era una bambinetta di dieci anni con
due trecce nerissime, adesso era diventata una bellissima ragazza, di aspetto
tipicamente brasiliano. Mirko ne rimase piacevolmente colpito, si capiva.
L’albergo di Franchino si chiamava “Casinhas das Estrelas”, e si
componeva di sei miniappartamenti sulla spiaggia, immersi nella
vegetazione. Un posto che trasmetteva quiete. Ci sedemmo a un tavolino
nella veranda della casa principale, all’ombra delle palme.
– Vedi Francesco, il mio amico Mirko si è separato dalla moglie e vuole
rifarsi una vita lontano da tutto il suo passato. Io credo che gli farà bene
parlare un po’ con te, potresti dargli qualche idea.
– Io me la sono rifatta tante volte la vita, sai Mirko. Prima sono scappato
dalla Sicilia, poi dal Brasile mi sono rifugiato all’isola d’Elba, e di lì
all’Imperiale. Tu sai cos’era l’Imperiale? Era un posto magico, un posto
dove ognuno di noi poteva fare quello che voleva, o per lo meno sognarlo.
– Lo so, ci andava mia moglie. Ma non me ne ha mai parlato per bene, ha
sempre detto che era una cosa della sua adolescenza.
– È una cosa difficile da spiegare per chi non c’è mai stato. Per me è stato
tutto per un bel numero di anni. E anche per tutti gli altri, io credo. Era la
nostra famiglia. Vedi Mirko, ripartire per me vuol dire chiedersi come
vorresti che la tua vita fosse, buttare giù tutto e provare a ricostruirla come
vuoi. Perché la tua vita è nelle tue mani, tu sei allo stesso tempo attore e
regista.
– Io vorrei solo essere libero. Fino a ora sono sempre stato inquadrato, ho
sempre fatto quello che gli altri si aspettavano da me e non ho mai preso
in mano le situazioni. Ho sempre pensato che facendo così sarebbe
successo qualcosa prima o poi. Ma ora sento che il tempo passa veloce,
non ho più voglia di aspettare.
– Bene, allora devi solo chiederti come vuoi vivere la tua vita, e poi farlo.
Non c’è nessuno che ti trattiene, solo la tua paura.
– Detta così sembra facile… Non è mica così immediato capire come
vorresti che la tua vita fosse…
– Devi pensare a cosa ti dice il tuo cuore adesso. Non pensare al passato,
non pensare al futuro.
– Io ho sempre guardato troppo al futuro, forse. Ho sempre fatto le cose in
prospettiva. Ma è vero, il futuro non esiste, basta un nulla per portare via
tutto quello che uno aveva faticosamente costruito. È proprio quello che
mi è successo con mia moglie.
Come speravo, Mirko aveva preso la cosa per il verso giusto. Stava ad
ascoltare quello che Franchino aveva da dirgli e cercava di capire come
ricostruire la sua vita. Era fatta, potevo anche andarmene. La sera, dopo
cena, Mirko si offrì di aiutare Luna a fare i piatti e io e Franchino andammo
a fare una passeggiata in spiaggia. Anch’io avevo bisogno di consigliarmi
con lui.
– E tu che fai Chicco? Dov’eri andato a finire?
– Sono scappato via quando hanno preso Niccolò. A Boavista, da un mio
amico. Anche noi abbiamo un albergo.
– E cosa ci fai lì?
– Non lo so neanch’io. Aspetto. Non so neanche cosa. Aspetto di morire.
Ma ho deciso di andarmene. Non ha più senso che resti lì. Sai che Mirko è
stato sposato con Alessia? Lei si è innamorata del mio socio Luca e
probabilmente verrà a vivere a Boavista.
– E perché non rimani con loro? Non avete recuperato il rapporto?
– No, anzi, quando è venuta a trovarci abbiamo parlato e siamo stati molto
bene. Ma non credo che lei abbia voglia di avermi accanto. Anche lei ha
bisogno di ricominciare, non può farlo con me accanto, le ricordo Niccolò
e quel periodo della sua vita.
– Niccolò è stata una tragedia. Ti hanno raccontato della sua
commemorazione all’Insomnia?
– No, non ne sapevo niente.
– Sai, i suoi genitori avevano proibito a tutti noialtri di andare a trovarlo in
ospedale, e non ci vollero neanche al funerale in chiesa. Allora il sabato
dopo la sua morte abbiamo organizzato una commemorazione in
Patchwork Place. Tutti vestiti di nero. Col Principe Maurice vestito da
cardinale, che lo ha benedetto e ha pregato per lui. Abbiamo raccontato di
lui ai ragazzi, abbiamo mostrato le sue foto. Secondo me è stata una bella
cosa. Per tenere vivo il ricordo di lui.
– Si, credo che sia stata proprio una bella cosa. La sua famiglia eravamo
noi. Sono contento che ci abbiate pensato voi. Io sono stato un vigliacco a
scappare così.
– Non fartene una colpa, non potevi fare altro. O volevi farti arrestare?
– No, è proprio per quello che sono scappato. Ma non sono sicurissimo di
aver fatto la cosa giusta. Ora mi ritrovo con cinque anni di più e una vita
assolutamente inutile su un’isola deserta.
– Se sei davvero convinto che sia inutile sei ancora in tempo a cambiarla
Chicco.
– Tu cosa faresti Francesco?
– Lo sai cosa farei, io nella mia vita me ne sono sempre andato via quando
le cose si mettevano male. Ma se torni in Italia finisci in galera.
– Lo so, ma forse non c’è altra strada. Se non torno in Italia resterò a
marcire a Boavista. Indesiderato, peraltro, se Alessia verrà da noi.
– Perché non resti qui?
– Perché qui c’è il mio passato. L’hai detto prima tu. Mirko viveva
proiettato nel futuro, io nel passato. Stare qui con te per me non farebbe
altro che peggiorare le cose. E alla fine Alessia ha ragione, anche stare
vicino a lei non farebbe che riportarmi continuamente al passato. Io devo
andare avanti. Avanti ci sarà qualcosa, no?
Senti, tornando a Mirko, mi farebbe piacere che lo tenessi un po’ con te.
Poi vedrà lui cosa fare. Credo che abbia molto da imparare da te.
– Va bene. Lo faccio per te. Capisco che ci tieni.
– Si, non so esattamente perché ma mi sento un po’ responsabile per lui.
Fatta. Tutto era sistemato. Finalmente potevo partire. Mi attendevano
un’altra decina giorni da solo in barca, poi avrei salutato Luca e Bemvindo e
me ne sarei andato.
Tornammo a casa. Mirko e Luna erano in veranda, seduti sul dondolo a
parlare. Franchino entrò in casa, ci preparò un chilum e lo portò fuori.
Mentre gli altri ridevano e scherzavano, io rimasi in silenzio. Infondo la vita
poteva essere bella. Bastava vivere il presente e prendere le cose con
leggerezza. Non potevo più aspettare. Sarei partito l’indomani mattina. Al
momento di andare a dormire, annunciai la cosa a Mirko. Lui mi disse che
capiva, e mi ringraziò per tutto quello che avevo fatto per lui. Non c’era più
molto da dirsi, e sprofondammo nel sonno.



BENVENUTI IN AFTERHOUR
Arrivai a Boavista la mattina del 14 luglio. Attraccai la barca al molo e
scendere fu come rinascere. Non avevo idea di dove andare, di dove fosse
l’albergo di Luca, non sapevo la lingua. Ma la gente fu gentilissima, si
sforzava di capire quello che dicevo, e alla fine due ragazzini mi
accompagnarono all’albergo del “giovane italiano”.
Quando vidi Luca mi gettai ad abbracciarlo e scoppiai a piangere, forse
anche solo per la contentezza di aver qualcuno con cui poter parlare dopo
quasi un mese. Parlando con lui mi stupii della mia incoscienza: ero partito
senza dire nulla a nessuno, nemmeno a Alessia o a mia sorella. Non sapevo
nulla, cos’era successo, cosa mi sarebbe successo se fossi rimasto.
Fortunatamente era stato Luca a mettersi in contatto con Marco, che
ancora viveva a Firenze, per cercare di capire quello che era successo.
Dopo la morte di Niccolò la polizia aveva trovato il laboratorio. Alessia
era stata arrestata e interrogata. Matteo l’avevano preso a Savona, mentre
cercava il modo di passare la frontiera. Ci sarebbe stato il processo. Un
casino. Lì per lì mi sentii sollevato di essere scappato via e di avere la
possibilità di dare alla lavagna un bel colpo di cimosa e ricominciare
dall’inizio.



AND YOU SWIM TO THE SUNSET
Il viaggio di rientro fu tranquillo ma stancante. Fu un sollievo arrivare in
vista delle isole. Lasciai la barca alla rada e aspettai che Bemvindo venisse a
prelevarmi col gommone. Ero uno straccio, sporco, la barba di quasi un
mese. Bemvindo mi disse che Luca era dovuto andare a Sal a sbrigare degli
affari con gli importatori all’aeroporto. Meglio così, meglio non rivederlo.
Avrebbe senz’altro cercato di convincermi a restare, e probabilmente avrei
finito per cedere, raccontandomi che le sue argomentazioni razionali erano
corrette.
Allora gli scrissi una lettera in cui spiegavo perché me ne andavo, e
auguravo a lui e ad Alessia tutto il meglio. Li pregavo che non mi
dimenticassero, e promisi di tornare a trovarli, un giorno. Poi chiamai
l’agenzia di viaggi di Sal Rei e mi feci prendere un biglietto aereo per
Bergamo.
Il resto della giornata fu riposante. Presi il furgone e feci un giro dell’isola.
Allora vidi per la prima volta quanto era bella. Quanto erano irreali le
montagne rosse dell’interno, com’era profondo il colore del mare. Com’era
suggestiva l’oasi lungo la strada vecchia.
Cenai con Bemvindo. Non si scompose quando gli dissi che sarei partito il
giorno dopo. Bemvindo aveva capito tutto, fin dall’inizio.
Il volo era pieno di italiani che tornavano dalle vacanze. Sembravano tutti
abbastanza felici di tornare a casa. Eppure la vacanza era finita, si tornava al
lavoro, alla vita ordinaria. Magari la vita ordinaria non era così brutta,
pensai. Fui l’ultimo a scendere dall’aereo. Il caldo era insopportabile. Al
gabbiotto dei finanzieri che distrattamente controllavano i passaporti c’era
un uomo sulla cinquantina. Gli porsi il mio vecchio passaporto. Lui lo
guardò un po’ perplesso, dopo pochi secondi alzò lo sguardo con aria
interrogativa e disse:
– Ma guardi che questo è scaduto da tre anni!
Un agente si avvicinò da sinistra, pronto a intervenire. Gli offrii i polsi.
– Lo so. Ha visto la data di nascita? Compio trent’anni oggi, signor
commissario, e mi sento molto stanco.


BUONANOTTE A TUTTI INSOMNIA
Chiusura della stagione. Cinque di mattina. Le luci si accendono, la pista si
svuota. Mario Più mette su Smokebelch, l’ultimo disco. Franchino riprende
il microfono. I ragazzi rimasti si portano sotto la console. Alcuni si
abbracciano, alcuni piangono.
“Buonanotte a tutti ragazzi, e guidate con prudenza, che vivere fa più
paura che morire…”
Ultima modifica di Andreapisa il 18/09/2010, 13:47, modificato 1 volta in totale.


robbeHC

Re: Storia Imperiale mezzanotte-mezzogiorno

Messaggio da robbeHC »

Da brividi :$
des

Re: Storia Imperiale mezzanotte-mezzogiorno

Messaggio da des »

Andreapisa ha scritto: “ vivere fa più
paura che morire…”
niente di più vero :clap:
kayo

Re: Storia Imperiale mezzanotte-mezzogiorno

Messaggio da kayo »

Penso sia la prima volta in 28 anni che leggo qualcosa per un'ora e mezza senza fermarmi e senza esserne stanco...
Jamma

Re: Storia Imperiale mezzanotte-mezzogiorno

Messaggio da Jamma »

Io ce ne ho messe 2 di ore invece :lol:
mamma mia, anche se lunga merita tutto il tempo...
panico.....
]]] Ughetto gbR [[[

Re: Storia Imperiale mezzanotte-mezzogiorno

Messaggio da ]]] Ughetto gbR [[[ »

lungo,molto lungo ma una di quelle letture che non ti stancano per nulla e ti prendono un casino.....
Andreapisa

Re: Storia Imperiale mezzanotte-mezzogiorno

Messaggio da Andreapisa »

son contento che vi sia piaciuta!
lomaz

Re: Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

Messaggio da lomaz »

Comunque si chiamava Club Imperiale
Lukino

Re: Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

Messaggio da Lukino »

oddio :$ :'(
Andreapisa

Re: Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

Messaggio da Andreapisa »

lomaz ha scritto:Comunque si chiamava Club Imperiale
si chiamava club imperiale fino al 93 o 94,poi è diventata discoteca
(non l'ho creato io questo post,io l'avevo aperto in off topic solo per farvi leggere la storia,l'hanno spostato qui i mod)
lomaz

Re: Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

Messaggio da lomaz »

Ho cominciato a leggere alle 16:30 ed ho finito ora.. Brividi! :$
m1mu

Re: Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

Messaggio da m1mu »

spettacolo!
lomaz

Re: Discoteca Imperiale - Tirrenia (PI)

Messaggio da lomaz »

Da un locale per ballare si é creato tutto questo! :$ :$ :$
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